Cambiamento Climatico Educazione

Chi sono e che vogliono i “Fridays For Future”?

Parola ai protagonisti del movimento avviato da Greta Thunberg. Età, formazione, ideali, obiettivi e paure della generazione che sta animando la protesta ambientalista in tutto il mondo.

Da molti mesi studenti di tutte le età e di tutto il mondo si sono mobilitati per combattere i cambiamenti climatici e rivendicare il proprio futuro, con azioni e manifestazioni messe in atto ogni venerdì. Da ciò, il movimento prende il nome di “Fridays for Future. Sull’esempio della giovane svedese Greta Thunberg, milioni di ragazzi sono scesi in piazza lo scorso 15 marzo per il primo sciopero globale per il clima. La seconda mobilitazione, la Climate Action Week, è in corso in questi giorni in tutto il mondo, con eventi che culmineranno venerdì prossimo, 27 settembre. Questo movimento di studenti non ha leader riconosciuti, e si organizza in gruppi cittadini. Abbiamo incontrato quello di Roma per conoscere meglio il loro impegno e le loro richieste, rivolte a governanti e istituzioni. L’intervista è stata registrata a margine di un’assemblea di preparazione agli eventi della Climate Action Week.

Da chi è formato questo movimento? Da quali gradi di scolarizzazione?

[Riccardo, studente universitario al secondo anno di scienze naturali] Questo è un movimento che sostanzialmente nasce dal basso, dai giovani che seguono le orme di Greta Thunberg, che ha visto partecipare un po’ tutte le fasce d’età. Abbiamo attivisti giovanissimi, addirittura delle elementari. C’è una grandissima presenza sia di studenti medi inferiori sia delle superiori, e anche una grande partecipazione degli universitari; per poi arrivare ai più grandi, i cosiddetti “Parents For Future”.

Fridays For Future è un movimento internazionale però organizzato su base cittadina: ogni città ha il suo comitato. Che rapporti avete con le altre città italiane e con il movimento internazionale?

[Giuseppe, laureato alla magistrale in fisica] In Italia c’è un coordinamento tra i nodi locali dei Fridays For Future, sebbene vi sia una certa autonomia delle varie assemblee locali. Ogni assemblea esprime dei portavoce che poi si coordinano con quelli delle altre città, sebbene la strutturazione a livello nazionale sia comunque molto fluida, in via di definizione. Presto ci sarà un’assemblea nazionale a Napoli; magari in quell’occasione si definirà ancora meglio un percorso che è nato da poco.

Pensate di fare un manifesto in cui fissare dei punti comuni? Ne sentite il bisogno?

Non credo. Il problema di fare un manifesto è che si rischia di cristallizzare quel che esce fuori. Adesso, pian piano, stiamo cercando di creare un’elaborazione, un messaggio comune. A livello internazionale il coordinamento è ancora più lasco: c’è stato recentemente un meeting internazionale a Losanna, però non c’erano dei portavoce decisi a livello nazionale, sono andate lì persone a titolo individuale, proprio perché le realtà nazionali ancora si stanno costruendo. È uscita fuori una “dichiarazione di Losanna”, che però non è vincolante per i Fridays For Future europei. Poi ci sono Fridays in tutto il mondo, in paesi lontanissimi, per cui diventa un po’ complicato avere un livello di coordinamento che prenda decisioni. A livello internazionale la cosa va un po’ da sé. Tutto è successo molto velocemente quindi le cose si stanno definendo man mano.

Come e quando vi riunite? Di che cosa parlate? Chi invitate? Chi può intervenire?

[Piergiorgio, studente alla magistrale di chimica] Per quanto riguarda l’organizzazione del comitato di Roma – ma penso anche in tutte le altre città d’Italia – le assemblee sono sempre aperte a tutti. Non c’è un invito a soggetti, realtà o personalità specifiche: è aperto a tutti in maniera trasversale. A Roma ci si riunisce ogni lunedì alle 16 alla Città dell’Altra Economia. L’appuntamento è ormai ben consolidato, e c’è la possibilità di spostarsi in adatti per aumentare ancora di più la partecipazione, anche di chi venga da fuori Roma. Ad esempio, ultimamente abbiamo deciso di contattare tutti i comitati territoriali del Lazio che nel passato si sono occupati delle problematiche ambientali locali. Li abbiamo invitati il 4 settembre qui nella città dell’altra economia e abbiamo fatto una grande assemblea in cui abbiamo cercato, insieme a loro, di immaginare la mobilitazione (del 20-27 settembre, nda). Il nostro focus è che questo movimento è di tutti, perché interessa a tutte le età, a tutti i ceti sociali; e allargare la base di partecipazione e di discussione su quello che sarà lo sciopero non fa altro che aumentare la partecipazione e il passaparola: il cosiddetto “effetto domino”.

Qual è il vero messaggio di questa settimana? Che cosa chiedete? Ma soprattutto: a chi lo chiedete?

[Riccardo] Il vero messaggio di questa settimana è che serve una rivoluzione epocale nel nostro sistema di produzione, dall’energia al cibo, ai mezzi di trasporto. Quello che vogliamo far capire è che non basta cambiare solamente un aspetto della nostra vita; ma la nostra vita, nella sua totalità, ha un impatto su questo pianeta che è diventato ormai insostenibile. In questa settimana dal 20 al 27 ci saranno diverse iniziative e azioni in varie parti di Roma con temi specifici. Ci sarà il tema dei trasporti, il tema dei rifiuti, il tema della produzione di cibo e di energia. Insomma quello che vogliamo far capire, sia al singolo cittadino sia alle istituzioni, è che il cambiamento va attuato su due livelli: sia dalle scelte personali, che facciamo quotidianamente nella nostra vita; sia dalle scelte politiche, quelle dell’impostazione del piano economico e di sviluppo, che poi porteranno tanti individui a fare appunto le loro scelte.

Voi e i vostri più giovani colleghi, quelli delle scuole medie superiori e inferiori, avete però dei referenti diretti che sono il corpo insegnante, i docenti, i docenti universitari. Che cosa ricevete da quel mondo? Appoggio? Educazione ambientale? Ritrovate questi temi nei programmi, o avete dovuto formarvi da soli?

[Piergiorgio] Per quanto riguarda l’appoggio che gli insegnanti danno al movimento, o comunque alla voglia che abbiamo di cercare questa rivoluzione: sicuramente sì, c’è, anche se non da tutti. Dipende sempre e ancora, purtroppo, dalle sensibilità personali. È una cosa sentita a livello personale, ma non da tutti. Gli insegnanti forse sono più sensibili, ma sono veramente percentuali piccolissime. La seconda domanda è molto più interessante, perché va a toccare qualcosa che abbiamo analizzato all’interno delle nostre assemblee, ovvero la didattica: quello che ci viene insegnato. La risposta netta alla domanda è: no, in nessuno dei nostri corsi viene insegnato un metodo alternativo agli attuali sistemi produttivi. Per noi questo è un grave problema. È infatti uno degli obiettivi che ci siamo posti nel lungo periodo. In tutte le nostre discussioni, ogni volta che si va a sviscerare un argomento, dai rifiuti alla produzione energetica e agro-alimentare, alla fine ci ritroviamo sempre ad un nodo che non si riesce a sciogliere. Ovvero che, per quanto l’impegno individuale sia importante e la sensibilizzazione debba continuare, comunque non basterà mai. Non parliamo di ideologia o di politica: parliamo di numeri. Parliamo di percentuali che i nostri sforzi individuali non vanno a riempire: non vanno a controbilanciare tutto il problema ecologico che si è creato. Ogni volta concludiamo che il problema è il sistema che in questi anni abbiamo costruito: il sistema di produzione, e del conseguente consumo, che è sbagliato e che piano piano noi abbiamo l’intenzione di convertire. Anche se siamo perfettamente consapevoli che dall’oggi al domani non possono cambiare tutti i sistemi produttivi, quello è l’orizzonte verso cui camminiamo. Vogliamo farlo, passo dopo passo, agendo su ciò che è possibile sul momento, nella contingenza, ma l’obiettivo è di cambiare il sistema produttivo. Rispondendo alla domanda “a chi ci riferiamo?”, i primi che devono capirlo sono: tutti. Intanto dobbiamo capirlo noi, come cittadini; quindi vogliamo condividere le analisi fatte perché tutti quanti arrivino a quella stessa consapevolezza. E poi le forze politiche: purtroppo sono un po’ dure di comprendonio, però noi non ci tiriamo indietro nell’attaccare. Comunque loro sono i primi responsabili, perché se è vero che la poca sensibilizzazione dei cittadini non è tanto colpa delle persone stesse, i politici sono molto responsabili. Sarebbero quelli che hanno il “dovere” di guardare più in là del nostro naso; guardare più in là di cinquant’anni e capire che questi metodi produttivi non funzionano più, e quindi vanno man mano smantellati.

L’intervento, l’idea, di Greta Thumberg ha avuto un ampio risalto nel mondo degli adulti, della comunicazione, anche perché lei è apparsa come una bambina spaventata da questo futuro nero che si prospetta. Ovviamente questo timore, su un ragazzo, ha un impatto diverso rispetto a un adulto, un cinquantenne, oppure a un politico di terza età.  Qual è la vostra più grande paura rispetto all’ambiente. Che cosa veramente vi spaventa? Che cosa vedete come qualcosa che vi cambierà il futuro?

[Riccardo] A me personalmente, sia per il fatto che sono un naturalista, sia per vocazione personale, la cosa che mi preoccupa di più è la distruzione, l’estinzione di tantissime specie. Non ce ne rendiamo conto, ma qualsiasi azione facciamo ha un peso su questo pianeta. E inevitabilmente, il peso di otto miliardi di persone che hanno deciso di vivere in un sistema capitalistico seguendo questo sistema economico, porta alla distruzione di tantissimi habitat e quindi alla scomparsa di tantissime specie. È una ricchezza che stiamo perdendo e ce ne dobbiamo rendere conto.

[Giuseppe] A me la cosa che spaventa di più di tutta questa storia è l’impatto sulla nostra catena alimentare. Non in termini di contaminazione ma di riduzione delle risorse. Mi spaventa che, magari, fra vent’anni cominceranno a scarseggiare tutta una serie di prodotti fondamentali. Non è solo una questione di catena alimentare: parliamo di risorse per poter vivere in generale: l’acqua, il cibo… il fatto che a un certo punto ci porremo il problema che mancheranno le cose base per poter vivere. Chiaramente è una conseguenza di ciò che è stato detto nell’intervento che mi ha preceduto: se “saltano” delle specie fondamentali per la produzione di prodotti che utilizziamo, che vanno a incidere sulla capacità dell’umanità di poter “esistere”, il problema è enorme. Il problema che mi pongo è che non finisce semplicemente col dire: va tutto peggio, si peggiora; perché viviamo in una società non omogenea, che presenta fratture sociali abbastanza complesse. Questa cosa andrà a incidere sulla conflittualità sociale a livello-geopolitico: guerre, immigrazioni di massa. In verità io penso che dalla conflittualità sociale possa­­ anche uscire la risposta, la spinta a cambiare: come in passato abbiamo strappato dei diritti proprio a partire dalla conflittualità sociale – chiaramente perché è stata posta in termini produttivi – la stessa cosa si può fare anche in questo caso. Però ci troviamo di fronte a un problema così epocale che tale conflittualità sociale potrebbe essere prodotta dalla disperazione totale, da un contesto così difficile che non è detto si riesca a risolvere. Quindi si pone il problema di riuscire a vincere su qualcosa; a portare a casa dei risultati.

[Piergiorgio] Io mi ritrovo spesso a pensare a quando a casa avremo un tot di litri d’acqua al giorno; e quindi alla conflittualità sociali che poi si andrà a creare. Da una parte spero di non viverlo, ma sono sicuro che succederà. In questo sistema, le risorse, che saranno sempre di meno, potranno essere accessibili a sempre meno persone: quelle con più soldi e più risorse potranno accedervi. Noi invece, che non siamo in quella situazione, ci ritroveremo a versare in uno stato di guerra tra poveri; perché quando abbiamo un problema a sopravvivere, il primo che attacchiamo è proprio il vicino che ha quanto, o poco più di noi. Quindi il problema va sempre più ad auto-alimentarsi. Questa è una cosa che a pensarci spaventa, perché non sappiamo fino a che punto può arrivare.

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