Il “Consenso di Hangzhou” impegna i grandi per un futuro sviluppo più equo, sostenibile e green. USA e Cina ratificano l’Accordo di Parigi; l’Italia? Lo farà a breve.
La riunione del G20 a Hangzhou, in Cina, ha prodotto un momento storico, la ratifica contemporanea dell’Accordo di Parigi di Stati Uniti e Cina, e un documento finale, il cosiddetto “Consenso di Hangzhou“, in cui le venti maggiori economie planetarie hanno delineato le future politiche comuni sul piano della finanza, dell’economia e dello sviluppo.
Se il primo evento ha un chiaro valore mediatico, oltre che pratico (visto che i due paesi insieme sono la fonte del 37,98% delle emissioni globali di gas serra) il comunicato di chiusura del meeting, meno clamoroso, rappresenta un concentrato di buoni propositi e obiettivi che dovrebbero portare a un’economia mondiale più equa, stabile e sostenibile. A patto che vengano realizzati.
La dichiarazione congiunta dei venti parte dalla premessa che le minacce maggiori allo sviluppo e al benessere per tutte le nazioni vengono dall’instabilità dei mercati finanziari, dai cali di produzione e di occupazione, dagli attuali sviluppi geopolitici, dagli eccessivi flussi di migranti e rifugiati, e dal terrorismo. “La ripresa dell’economia è in corso […] ma la crescita è minore di quanto si spera“, lamentano i grandi della Terra.
La soluzione prospettata al G20 è favorire un’economia mondiale sempre più interconnessa, inclusiva e innovativa per “entrare in una nuova era di crescita globale e sviluppo sostenibile“, indirizzata dalle linee guida contenute in accordi sottoscritti lo scorso anno: l’Agenda di Addis Abeba (sviluppo sostenibile) e l’Accordo di Parigi (contrasto al cambiamento climatico). La dichiarazione di intenti esprime con toni decisi la volontà di “trasformare le nostre economie in modo più innovativo e sostenibile“, renderle più forti ed equilibrate. Il precetto è anche sociale: tutte le nazioni dovranno godere in futuro della crescita e dello sviluppo. Addirittura si legge: “lavoreremo duramente per costruire un’economia mondiale aperta, per rigettare il protezionismo […] servire i bisogni di tutti i paesi e tutti le persone, in particolare le donne, i giovani e le categorie svantaggiate […] sradicare la povertà in modo che nessuno sia lasciato indietro“. Parole sorprendenti, considerando le filosofie politiche, sociali ed economiche di molti dei paesi del G20*.
Come ottenere tutto ciò? Sono state sollevate critiche sulla genericità delle soluzioni proposte, sulla mancanza di concretezza degli obiettivi fissati. La ricetta fornita dal G20 in effetti elenca gli ingredienti ma non svela come cucinarli; il documento è una sequela di principi generali come: “politiche monetarie che supportino le attività economiche e assicurino la stabilità dei prezzi“; “rafforzare le comunicazioni, la cooperazione, la ricerca“; “favorire le piccole e medie imprese“; favorire la “trasparenza finanziaria” per contrastare fenomeni come l’evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio del denaro sporco. Per la verità sono state prese decisioni anche sul piano pratico: ad esempio è stata annunciata la creazione di una task force del G20 che dovrà collaborare con l’OCSE e “altri rilevanti organismi internazionali” per portare avanti l’agenda dell’innovazione, della nuova rivoluzione industriale e dell’economia digitale.
Il “Consenso di Hangzhou” è un documento che parla in prevalenza di economia e finanza, di investimenti e produzione, di lavoro e politiche sociali; ma una parte rilevante è riservata anche all’ambiente e alla Green Economy. In particolare spiccano alcune frasi messe nero su bianco: “Riconosciamo che, per favorire una crescita globale ecologicamente sostenibile, è necessario incrementare la finanza verde“; “[…] dando forma a un futuro energetico che utilizzi fonti e tecnologie accessibili, affidabili, sostenibili e a bassa emissioni di gas serra“. In seguito si fa esplicito riferimento ai gas naturali, in contrapposizione ad altri combustibili fossili: “Intensificheremo la collaborazione su soluzioni che promuovano l’estrazione, il trasporto e la lavorazione dei gas naturali in modo da minimizzare l’impatto sull’ambiente“. Parole chiave sono: riduzione dell’inquinamento e dei gas serra, efficientamento energetico, mitigazione, adattamento ai mutamenti climatici.
La green economy è indicata dunque come una delle vie maestre per il futuro, pur riconoscendone la difficoltà. Gli stessi leader dell’economia globale forniscono la misura di questa difficoltà: “Solo una frazione minima dei prestiti bancari è esplicitamente classificata green […] – si legge nel documento – Meno dell’1% delle obbligazioni globali sono etichettate come green, e meno dell’1% delle partecipazioni degli investitori istituzionali sono asset di infrastrutture green“. Per aumentare sensibilmente queste percentuali le soluzioni indicate sono: tasse, sussidi e normative che sostengano gli investimenti nel settore; l’abbattimento delle barriere dei mercati che ostacolano la collaborazione internazionale e gli investimenti tra paesi diversi nelle infrastrutture verdi; e soprattutto la mobilitazione del capitale privato.
Tra le scelte necessarie, secondo i venti, c’è proprio la collaborazione con il settore privato: il documento di sintesi del Gruppo di Studio sulla Finanza Verde (GFSG), allegato al documento finale del summit cinese, invita ad “aumentare la capacità del sistema finanziario di mobilitare il capitale privato per investimenti green“. Che cosa sia green è chiarito sullo stesso documento: ogni investimento che porti un beneficio all’ambiente. Tra questi investimenti sono citate esplicitamente l’agricoltura sostenibile e le infrastrutture per lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili. In particolare viene riconosciuta l’importanza dei piccoli agricoltori e delle aziende a conduzione familiare nell’ottica di uno sviluppo equo e sostenibile. Il lavoro agricolo, lo sviluppo rurale, la sicurezza alimentare e la lotta alla malnutrizione sono definite priorità per le quali si sollecita l’impegno dei competenti ministeri degli stati del G20.
Un altro punto chiave del “Consenso di Hangzhou” è l’impegno dei venti a “completare al più presto possibile le procedure per la ratifica dell’Accordo di Parigi in sede nazionale“. L’accordo che ha chiuso trionfalmente la COP21, infatti, resterà sulla carta finché almeno il 55% dei paesi firmatari (e almeno 55 nazioni su 180 concordatari) non lo avrà ratificato con i voti dei propri organi rappresentativi nazionali. Cina, Usa e altri 25 paesi lo hanno fatto, sebbene per gli Stati Uniti manchi ancora il voto del Congresso; molte altre nazioni ancora mancano all’appello. In Europa, ad esempio, la sola Norvegia ha ottemperato all’impegno. Al momento (inizio settembre) la percentuale raggiunta è del 39,08%. Qui si può monitorare la situazione aggiornata delle ratifiche. Per l’italia lasciano ben sperare le parole dei ministri Galletti e Gentiloni (Ambiente ed Esteri) che in una nota congiunta a margine del meeting cinese hanno dichiarato: “Nella cornice dell’ambizioso impegno europeo, l’Italia è a lavoro per definire la sua legge di ratifica, con l’obiettivo di trasmetterla entro settembre alle Camere e di poter completare l’iter parlamentare nel più breve tempo possibile“.
* Il G20 è composta da rappresentanti dei governi di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Australia, Arabia Saudita, Argentina, Corea del Sud, Indonesia, Messico, Turchia. A questi 19 stati si aggiunge l’Unione Europea nel suo insieme.