Giorgio Vacchiano - Università Statale di Milano
Cambiamento Climatico Interviste

Giorgio Vacchiano: Piantare alberi per il clima? Costa meno salvare le foreste esistenti.

Giorgio Vacchiano, tra i massimi esperti di scienze forestali, commenta proposte e soluzioni per la lotta al cambiamento climatico che stanno emergendo nel dibattito politico.

Il 3 agosto un collettivo di “scienziati del clima”, in collaborazione con la testata Green&Blue, ha pubblicato una lettera aperta ai politici italiani, candidati alle elezioni politiche del 25 settembre. “Un voto per il clima” è un’esortazione a mettere in primo piano la crisi climatica nel dibattito politico pre elettorale, e ad includere nei programmi di governo impegni concreti per la transizione dalle fonti di energia fossili a quelle rinnovabili. Sugli aspetti generali dell’iniziativa ci ha riferito in un’intervista uno dei primi firmatari: Antonello Pasini, fisico del clima del CNR. Ma la lettera è sottoscritta anche da esperti di altre discipline della comunità scientifica italiana, come Giorgio Vacchiano, professore di Scienze Forestali dell’Università Statale di Milano, con cui vogliamo approfondire gli aspetti del problema legati al patrimonio forestale.

Professor Vacchiano, “Un voto per il clima” è dichiaratamente un appello degli “scienziati del clima”. Lei però non è un climatologo. Può spiegare l’apparente contraddizione per cui un esperto di foreste come lei sottoscrive questo appello?

I primi firmatari dell’appello sono climatologi che hanno fatto ricerca sul cambiamento climatico e la fisica dell’atmosfera. Per la Scienza ciò che importa sono i fatti, le osservazioni, soprattutto quelle indipendenti. Più volte i risultati di uno studio vengono ripetuti e confermati da ricercatori indipendenti, più quelle osservazioni e quelle interpretazioni diventano robuste. L’adesione è dovuta al fatto che le pubblicazioni di queste persone dimostrano ampiamente l’urgenza della crisi climatica e, naturalmente, le cause: interamente imputabili alle nostre emissioni di gas serra. Le ricerche dimostrano anche l’esistenza di alcune soluzioni di cui sarebbe importante parlare. Detto ciò, anche le foreste sono profondamente implicate, sia nella crisi, sia nelle soluzioni. Quest’anno in Italia abbiamo visto che gli impatti della crisi climatica, dalla siccità agli incendi boschivi, riguardano moltissimo anche le foreste: perché cambiano, oppure si riducono; ma anche perché ci danno benefici a cui non possiamo rinunciare: la produzione di legno, la protezione dal dissesto idrogeologico, l’assorbimento di CO2. Ricordiamo che gli alberi sono l’unica tecnologia ad emissioni negative: in grado di “risucchiare” anidride carbonica. Ne abbiamo un gran bisogno in questo momento. Proprio per questo gli alberi fanno parte delle soluzioni; ma sicuramente non possono risolvere tutto. Il problema principale è il modo in cui utilizziamo i combustibili fossili. Questo deve assolutamente smettere: bisogna trovare molto velocemente delle alternative; ma l’assorbimento delle foreste sarà importantissimo per arrivare al famoso “net-zero”: l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050. Senza le foreste probabilmente non riusciremo a ridurre interamente le attuali emissioni.

L’appello è stato pubblicato il 3 agosto. Lei è stato contattato dalle segreterie politiche, o da politici locali, per consigli sulla campagna elettorale o per la stesura dei programmi?

La Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale ha pubblicato un decalogo di strategie forestali che io poi, in qualità di membro del comitato scientifico di Europa Verde, ho proposto e provveduto a far incorporare nel programma dell’Alleanza Europa Verde – Sinistra Italiana. Dalla data dell’appello tutti i partiti hanno pubblicato i propri programmi elettorali. Con Climalteranti, l’ONG che si occupa di comunicazione climatica, e Italian Climate Network abbiamo pubblicato un’analisi critica dei programmi dal punto di vista climatico. Li abbiamo letti tutti, cercando di giudicarli con criteri oggettivi. La novità è che tutti i partiti parlano di crisi climatica causata dall’uomo. Non c’è più spazio per negazionismi di alcun tipo, neanche per i partiti che in passato lo avevano dato. Questo è un progresso importante per l’opinione pubblica. Ora si deve iniziare a parlare di soluzioni: se tutti riconoscono l’esistenza di un problema, di conseguenza bisogna capire come risolverlo. Qui le cose si fanno interessanti, perché le soluzioni variano molto nell’arco politico. Divergono sia in quanto alla tipologia (un esempio su tutti: il ricorso all’energia nucleare), sia soprattutto per il grado di approfondimento ed efficacia. Ci sono partiti che nel programma indicano soluzioni in modo estremamente vago, a volte lasciando addirittura spazio a dei “distrattori”. Il classico esempio è il piantare alberi: da una parte è senz’altro utile; dall’altro viene spacciata come l’unica o la migliore cosa che possiamo fare, rischiando di distrarre l’attenzione da cose più importanti ed efficaci, come il passaggio alle fonti di energia rinnovabili.

Piantare alberi: lei è uno dei massimi esperti. Sembrerebbe facile: si comprano alberi dai vivai; si piantano per i prossimi venti o trent’anni; e così avremo più foreste che, come dice lei, sono la miglior tecnologia per lo stoccaggio del carbonio e la pulizia dell’atmosfera dalla CO2. È davvero così facile ed economico farlo?

Su scala globale, tra le strategie in cui possiamo usare alberi e foreste, [il piantare] è la più costosa in assoluto. La meno costosa sarebbe limitare o arrestare la deforestazione tropicale. Costa molto meno fermare completamente la deforestazione che coprire di alberi mezzo pianeta. Anche perché tendiamo a dimenticare che, una volta piantati, gli alberi vanno mantenuti: bisogna curarli almeno per 4-5 anni dopo l’impianto. Durante grandi siccità, come nell’estate appena trascorsa, se non forniamo acqua supplementare rischiamo che il nostro impianto muoia a causa della grande pressione climatica a cui gli ecosistemi sono sempre più soggetti. Se scendiamo al livello locale le difficoltà sono due. Lei dice: è facile comprare le piante al vivaio. Il problema è che i nostri vivai, in questo momento, non hanno abbastanza piante per soddisfare tutti i proclami di piantumazioni promesse in grande numero, non solo a livello politico, ma anche aziendale e governativo. Secondo un’indagine dell’Università di Firenze oggi produciamo tra i 4 e i 5 milioni di piantine all’anno; quindi ci metteremmo un bel po’ a piantarne anche solo una per ogni cittadino. Naturalmente non è un motivo per non farlo; però è un motivo per immaginare che questa soluzione non sia semplice e immediata, e soprattutto che non richieda nient’altro. Il rischio che corrono alcuni partiti, e soprattutto alcune aziende tra cui quelle dei combustibili fossili, è di lavare la propria coscienza e quella dei cittadini, dicendo: se piantiamo alberi è tutto risolto. Le ultime ricerche dicono che anche se coprissimo di alberi il pianeta, ma non riducessimo le emissioni alla fonte, le piante riuscirebbero ad “occuparsi” solo del 20-22% delle nostre emissioni. Siamo molto lontani dal riuscire a risolvere il problema soltanto così.

Di recente, riportando le conclusioni di uno studio pubblicato da Nature, lei ha evidenziato un aspetto “negativo” della riqualificazione verde delle aree urbane. Si parla di “green gentrification”: la riqualificazione di un quartiere popolare, malfamato o degradato con il verde, potrebbe “scacciare” la popolazione che lo ha abitato fino a quel momento, perché diventerebbe troppo caro, troppo “borghese”. Dove si sta verificando questo fenomeno? Ci sono dei correttivi?

Piantare alberi non è necessariamente semplice. Un conto sono singoli cittadini, gruppi, o scuole che piantano nel giardino o in un terreno disponibile; ma se è un’amministrazione a farsi carico di questa strategia, come dovrebbe essere, deve tenere in conto anche “dove” li mette, perché è ciò che fa la differenza. Un primo aspetto è che in questo momento il verde non è distribuito in modo equo nelle città: ci sono quartieri con molto verde, molto accessibile, e altri con poco: magari sono quartieri poveri, dove abitano le persone più vulnerabili; quelle che non hanno un condizionatore, ad esempio, avrebbero più bisogno dei benefici di raffrescamento che il verde urbano può garantire. Un albero non è uguale dappertutto: è più efficace dove le persone riescono a raggiungerlo, ad accedervi possibilmente a piedi. Un secondo aspetto è che in quartieri poveri, disagiati o dove vivono le persone più vulnerabili, bisogna fare attenzione: gli alberi inevitabilmente aumentano il valore degli immobili. Questo è un buon contributo del verde urbano al reddito e alla ricchezza di una comunità; ma è una cosa che va gestita, per evitare gli effetti indesiderati osservati nelle città nord americane ed europee dallo studio che ho citato.

Un voto per il clima” spinge per la decarbonizzazione dell’economia e dell’industria abbandonando petrolio, carbone e gas come fonti di energia. Non vengono indicate le alternative. Uno dei primi firmatari, il professor Pasini, in una recente intervista ci ha già chiarito che non è compito dei climatologi indicare precisamente il mix energetico. L’elefante nella stanza è il nucleare che sta tornando nel dibattito elettorale. C’è chi a favore e chi è molto critico. Quelli a favore criticano anche gli scienziati contrari, sostenendo che non sono abbastanza informati. Lei ha una posizione sul tema?

Sì, ce l’ho, ma da “forestale”; quindi sono forse ancora meno competente dei climatologi a parlare di nucleare con giudizio. Per questo motivo non posso che rifarmi alle opinioni di colleghi più esperti di me. Ad esempio mi sembra molto credibile la posizione del professor Nicola Armaroli (Chimico del CNR, divulgatore sui temi delle fonti energetiche, co-autore tra gli altri di “Energia per l’astronave Terra”, nda.) che ha fatto delle analisi molto approfondite su questo tema, concludendo che il nucleare è penalizzato soprattutto dal punto di vista dei tempi e dei costi. Non è una posizione ideologica. Non è neanche per il rischio di incidenti, che effettivamente è molto basso. Incidenti che, a ben guardare, fanno molti meno morti di quelli prodotti dai combustibili fossili. È un’opposizione legata al fatto che, apparentemente, i soldi attualmente disponibili si possano spendere meglio, con soluzioni più veloci e meno costose, in particolare, per Gigawatt/ora di energia prodotta.

Detto questo c’è anche una componente di realismo: in Italia, non solo per il referendum dell’86 (che ha chiuso le centrali nucleari attive e bloccato quelle in costruzione, nda.) ma anche per le posizioni che abbiamo visto negli ultimi anni, penso sia estremamente difficile, se non impossibile, che una comunità accetti di costruire una centrale nucleare sul proprio territorio. Tra l’altro abbiano delle sindromi NIMBY (“Not in my backyard”: non nel mio giardino, nda.) che riguardano anche le rinnovabili: se si fatica ad accettare un campo di pannelli solari, figurarsi se non avremmo problemi con le centrali nucleari; anche solo per la paura, magari ingiustificata, di incidenti. Realisticamente temo che rischieremmo di imbarcarci in rallentamenti, cause, discussioni senza fine, che ci farebbero perdere molto tempo. Cosa che non ci possiamo più permettere.

Il mondo della comunicazione le sembra attento a questo tema durante la campagna elettorale?

Gli stessi firmatari della prima, hanno firmato una seconda lettera: un appello ai media. Pensiamo che i cittadini debbano essere bene informati per poter votare in modo consapevole. Durante l’estate mi è sembrato di assistere a un cambiamento nella narrazione. All’inizio episodi come la siccità, il maltempo, il ghiacciaio della Marmolada, venivano ancora raccontati in modo isolato, come se fossero delle cose che capitavano, senza particolari collegamenti l’una con l’altra. Con il proseguire della siccità e degli incendi, forse anche grazie all’appello, ho visto che effettivamente è stato fatto un racconto della crisi climatica; almeno sui principali media, escludendo quelli rimasti negazionisti. Forse ciò che ancora manca è il racconto delle soluzioni. Questo è un problema che abbiamo noi scienziati, soprattutto i climatologi, forse per ragioni di competenze, o magari per mancanza di inventiva o di doti comunicative. Raccontiamo il problema, lo denunciamo correttamente, diamo l’allarme… ma l’allarmismo senza produrre soluzioni è controproducente; perché rischia di generare angoscia, disperazione, paura, negazione, oppure deresponsabilizzazione: siamo nei guai, non sappiamo cosa fare; allora non facciamo più niente. Invece l’IPCC (l’organismo delle Nazioni Unite preposto allo studio e alla lotta ai cambiamenti climatici, nda.) ci dice che le soluzioni esistono, ci sono già tutte. Non è un problema tecnologico. Addirittura già ci sono i capitali per attuare le soluzioni. Quindi il problema non è neanche trovare i soldi; ma decidere se e come spenderli. Questo, secondo me, è il passettino in più che i media dovrebbero ancora fare. Magari questa campagna elettorale potrebbe essere la prima in cui si parla di soluzioni climatiche. Ben venga il dibattito, se è basato sui fatti e non su ideologie o prese di posizione a priori. È ciò che deve succedere.

Questa estate la siccità ha avuto molto spazio. Si è parlato più che altro dei ghiacciai, dell’incidente della Marmolada, di fiumi e bacini, ma poco degli effetti sul patrimonio forestale del nostro paese. Ci può fare un quadro?

In realtà l’effetto più evidente è stato visto da molti cittadini, magari senza accorgersene: un autunno precoce, soprattutto nella bassa montagna. È successo sulle Alpi ma, mi dicono, anche sugli Appennini: molti boschi sono già ingialliti, o arrossiti, o hanno lasciato cadere le foglie. In realtà è una strategia difensiva delle piante, che così evitano di perdere acqua per evaporazione dalle foglie. L’anno prossimo questi alberi potrebbero riprendersi, se avranno un rifornimento sufficiente durante l’inverno e la primavera. Se invece la siccità continuerà, se avremo un altro inverno senza neve e una primavera senza acqua, molte piante potrebbero ricevere un colpo mortale. Quando ci sono perturbazioni di questo genere, il bosco in qualche modo è capace di riorganizzarsi e tornare; però rischia di farlo con tempi molto lunghi o con grandi cambiamenti: magari al posto di un bel bosco di conifere, abbiamo abeti completamente attaccati dagli insetti, tutti rossi e secchi; e dovremo aspettare dieci anni perché si affermino delle nuove specie, arrivando da chissà dove. Per quei dieci anni non avremo i benefici del bosco: un posto dove passeggiare; la protezione dalle frane; la depurazione dell’acqua potabile. Questo non è tanto un problema per il bosco, che ha tempi diversi dai nostri, ma lo diventa per noi.

È un pericolo già concreto? Può succedere nei prossimi anni in qualche regione italiana?

In molte zone delle Alpi il bostrico, un coleottero che si nutre di legno, ha già fatto molti danni su centinaia di ettari di foresta. Sicuramente erano foreste più vulnerabili delle altre, perché costituite da una sola specie, l’abete rosso, che ha grossi problemi quando arriva la siccità; ma sono foreste dove ora dobbiamo interrogarci sul da fare. Penso soprattutto alle montagne della Lombardia: io ho visto quelle in Val Brembana, ma anche in Val Seriana, in Val Trompia, nella stessa Val di Fiemme in Trentino. Sperare in un ritorno della vegetazione su centinaia di ettari di bosco distrutti, pone il rischio di aspettare troppo tempo. Si può pensare ad una ricostituzione: cioè piantare noi, far tornare velocemente il bosco. Ma dobbiamo chiederci: quali alberi conviene piantare adesso? A quale clima saranno soggetti nei prossimi anni? Magari dovremo progettare orientandoci verso boschi più resistenti. Questo è il nostro lavoro.

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