Emanuela Evangelista
Emanuela Evangelista
Interviste Pianeta

Emanuela Evangelista: Un racconto delle Amazzonie

Intervista a Emanuela Evangelista, biologa e attivista che da 20 anni vive al centro della foresta Amazzonica, raccontandone le genti, i conflitti e l’incanto.

Ho sempre pensato che ognuno abbia il suo luogo di elezione nel mondo.
C’è chi non può vivere lontano dal mare, chi ritrova sé stesso in montagna e chi si abbandona al deserto.
Il mio luogo di elezione era l’Amazzonia e mi bastò vederla: acque dolci, notti stellate e clorofilla.”

(“Amazzonia”, L’Incanto – Capitolo 10, pag. 95)

Ho incontrato Emanuela Evangelista alla presentazione del suo primo libro in occasione della Fiera Più Libri Più Liberi. Amazzonia, una vita nel cuore della foresta (Edizioni Laterza) è il racconto dei vent’anni che la biologa ha dedicato a un luogo che, col passare del tempo, per lei ha rappresentato studio, lavoro, famiglia e missione: quel continente verde, labirinto d’acqua, polmone del pianeta, patria di centinaia di popoli, che generalmente chiamiamo Foresta Amazzonica.

Amazzonia
Amazzonia

Raccontala al plurale!, mi ha detto a fine intervista. Perché la regione amazzonica si trova principalmente in Brasile ma sconfina in altre otto nazioni del Sudamerica. Molto più numerosi sono i popoli che la chiamano casa: almeno 400 etnie; 300 lingue; 50 milioni di persone, 2 milioni delle quali indigene, discendenti dalle popolazioni che hanno vissuto lì per migliaia di anni.

Evangelista è una biologa, romana di nascita, che da Milano è approdata in Amazzonia da studentessa per le ricerche della tesi. Come scrive nel brano che apre l’articolo, appena arrivata ha trovato il suo posto nel mondo, modificando poi tutta la sua vita per fare in modo di tornarci più e più volte, per farne infine la propria casa.

Amazzonia” è un compendio di esperienze, ricordi, approfondimenti su tanti problemi e altrettante sfaccettature di quella parte di mondo. Ci sono capitoli che assomigliano a saggi naturalistici, nella descrizione dei regni animali, dei monumenti vegetali, dei labirinti formati da terraferma e ruscelli che in Europa sarebbero fiumi e fiumi che da noi sarebbero mari. Altri capitoli hanno il taglio dell’inchiesta giornalistica, che racconta le ferite inflitte a quel mondo dalle industrie minerarie e dai latifondisti agrari; ma anche dalle comprensibili ambizioni di una varia umanità che cerca nelle ricchezze della terra il riscatto dalla povertà.

E poi ci sono i capitoli più intensi: gli incontri con uomini e donne dell’Amazzonia. Cacciatori, attivisti, coltivatori, mercanti, bambini, guide, minatori, ragazze/madri e nonne/madri, medici, fotografi, artisti. E poi, soprattutto, gli abitanti del villaggio di Xixuaù: una manciata di famiglie che vive, come l’autrice, su palafitte piantate lungo la riva del Rio Jauaperì, a diverse giornate di navigazione da tutto quello che noi definiremmo civiltà. Questo “luogo di elezione” prende vita lentamente sulle pagine del libro: mentre il grande racconto delle amazzonie passa da un argomento all’altro, negli intervalli Xixuaù si delinea nei suoi suoni, odori, ritmi, incanti, avvenimenti felici e tristi. Alla fine assume quasi i contorni di una Macondo del terzo millennio, una magica realtà la cui storia affonda le radici nella foresta e nei ricordi degli anziani, e il cui futuro incerto è legato alle politiche brasiliane di sviluppo sociale ed economico.

Emanuela Evangelista, come racconta, durante gli ultimi vent’anni, è evoluta da ricercatrice scientifica a biologa della conservazione, imparando sul campo che economia, ambiente, comunità, progresso, tradizione, foresta… tutto è collegato: dalla sopravvivenza del giaguaro al futuro del suo villaggio; dall’altezza delle inondazioni stagionali alle piogge necessarie agli immensi campi di soia che consumano la foresta. Amazonia Onlus, l’associazione di cui è fondatrice, presidente e testimonial, promuove lo sviluppo sostenibile della regione; cerca di tramandare l’identità culturale delle popolazioni con progetti educativi, sostegni all’economia locale e turismo responsabile; avverte noi europei che l’Amazzonia non si sostiene soltanto a parole, sui social o con qualche decina di euro di donazione, ma soprattutto facendo scelte oculate in fatto di alimentazione, finanza etica, acquisto di preziosi e prodotti da materie prime certificate.

Purtroppo la breve intervista che segue non ha potuto toccare i tanti temi interessanti, curiosi, appassionanti, misteriosi ispirati dalla lettura di “Amazzonia”. Il libro lo fa, pur rappresentando soltanto uno dei possibili racconti delle tante, infinite amazzonie.

Da vent’anni lei vive nel centro della regione amazzonica. Ha avuto evidenza del cambiamento climatico nell’arco di questo periodo?

Sì. Sicuramente ho visto tante cose cambiare nell’arco di vent’anni, anche sotto l’influenza del riscaldamento globale. La cosa più evidente è ciò che sta accadendo in questi giorni (dicembre 2023, ndr.): da ormai un paio di mesi siamo testimoni di una siccità mai registrata prima, che sta mettendo letteralmente in ginocchio l’Amazzonia e i suoi popoli. Fiumi importanti, come quelli del bacino del Rio Negro e dello stato di Amazonas, si stanno prosciugando a causa dell’innalzamento delle temperature sul territorio e di quelle dell’Oceano Atlantico, sommato all’arrivo del Niño di quest’anno (il fenomeno periodico che modifica le condizioni climatiche del Sudamerica, originate dall’aumento delle temperature al largo delle coste del Pacifico, ndr.). Questi tre fattori si stanno rafforzando a vicenda e hanno creato una situazione veramente drammatica; tanto che in questo momento è in atto una crisi ambientale e sociale. Si stanno portando aiuti alle comunità rimaste isolate perché la maggior parte delle comunità dell’entroterra amazzonico sopravvive e si sposta lungo i fiumi. Vie fluviali che in questo momento sono interrotte e le comunità sono isolate. Stiamo parlando di cacciatori-raccoglitori: persone che dipendono dalle risorse naturali e che in questo momento hanno anche il problema della sicurezza alimentare. I pesci nei fiumi stanno morendo e non c’è acqua potabile. Insomma uno scenario veramente drammatico, causato dal riscaldamento globale e quindi dalla crisi climatica.

In Amazzonia ci sono diverse regioni e diversi popoli: quelli incontattati, quelli urbanizzati; quelli che vivono ai margini della foresta e “della” foresta. Di che cosa hanno bisogno queste comunità?

C’è grande ricchezza e varietà, determinata innanzitutto dall’estensione del territorio. Inoltre l’Amazzonia è una regione abitata da almeno 12.000 anni. In tutto questo tempo i popoli hanno sviluppato culture tra loro anche molto diverse, a seconda della posizione geografica. Poi c’è stata la colonizzazione, che ha comportato un’alterazione di questi equilibri ma anche la nascita di nuove popolazioni tradizionali. Quindi la definizione generale di “popoli della foresta”, in realtà racchiude popolazioni diverse: dalle popolazioni indigene – ciò che è rimasto dopo la colonizzazione – ad altre popolazioni tradizionali come i caboclos e i quilombolas, che sono invece il “risultato” della colonizzazione; quindi dove queste culture si sono incontrate. Ad esempio i caboclos – gli abitanti della regione in cui vivo – sono indigeni, europei, e africani che fuggivano alla tratta atlantica degli schiavi. Anche dal punto di vista dei colori della della pelle, dei capelli e degli occhi c’è molta variabilità. Variabilità che si riscontra anche nella grande ricchezza culturale di questi popoli.

Questo è confortante: vuol dire che delle nuove popolazioni possono tornare allo stile di vita della foresta, anche in futuro.

Di sicuro si può sopravvivere in Amazzonia. Basta conoscere le tecniche di sopravvivenza. Il problema è che la deforestazione che avanza e il riscaldamento globale stanno portando la foresta ad un punto di collasso, di non ritorno. Se dovesse accadere, perderemmo anche questa grande sapienza e ricchezza: come una biblioteca di libri preziosi mai letti. Le conoscenze tradizionali di questi popoli non sono scritte in nessun luogo; le posseggono soltanto loro.

Mi ha colpito l’appello che ha lanciato a noi europei per “aiutare l’Amazzonia a cominciare dal nostro piatto”.

Le cause attuali della deforestazione hanno a che vedere con il sistema agroalimentare del pianeta. Semplicemente, quello che accade quotidianamente in Amazzonia è che si considera la foresta come un ecosistema non produttivo. Quindi viene tagliata per essere sostituita da qualcosa più economicamente produttivo. In questo momento la grande produzione economica è la monocultura di soia. Il Brasile, negli ultimi cinque anni, è divenuto il più grande produttore mondiale di soia: la produce e la distribuisce al resto del pianeta. A che cosa serve? A produrre un mangime molto nutriente che noi europei, per esempio, utilizziamo negli allevamenti intensivi industriali. Perciò, direttamente con l’acquisto della soia o indirettamente con quello che mettiamo nel piatto, tutti i prodotti di derivazione animale possono essere responsabili della distruzione di un po’ di foresta Amazzonica.

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