All’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, quali sono le possibili conseguenze per il processo di transizione ecologica?
L’avvento della nuova presidenza americana sembra messo a punto per destabilizzare l’equilibrio geopolitico mondiale, ammesso che di equilibrio si possa parlare in un tempo difficile come il nostro.
Nei giorni scorsi, analisti e osservatori di tutto il mondo hanno offerto ogni possibile lettura del discorso di insediamento di Donald Trump – che certamente è stato caratterizzato da una interminabile serie di affermazioni dirompenti – come anche dei primi atti della Casa Bianca, che stanno di fatto imponendo ad ogni decisore politico ed economico un’attenta riflessione sui nuovi scenari globali.
Ma al di là delle tante possibili considerazioni, appare del tutto evidente che il ruolo decisivo degli Stati Uniti nel multilateralismo internazionale, non vuole essere più frutto di una leadership culturale che faccia del binomio giustizia-democrazia il proprio stendardo. Gli Stati Uniti d’America intendono chiaramente far valere la legge del più forte, concentrandosi unicamente sulla strenua difesa degli interessi economici nazionali.
Ora però va considerato che questo approccio può entrare in aperto conflitto con alcune ineludibili verità del nostro tempo, rischiando di trasformarsi in un tragico boomerang, non solo per i cittadini americani ma anche per l’intera popolazione mondiale.
Un caso particolarmente eclatante è quello della lotta che la Casa Bianca ha deciso di fare alle politiche globali per il clima e alla transizione green. Una posizione antiambientalista radicale, che il nuovo Presidente ha scelto come bandiera ideologica della sua campagna elettorale e che ora sta traducendo in drastiche azioni di governo. Basti pensare: all’uscita dall’Accordo di Parigi; alla decisione di affidare l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente ad un esercito di lobbisti del fossile; allo stop dato all’eolico off-shore nonostante sia la più redditizia energia rinnovabile del momento; al via libera dato alle trivellazioni e al fracking per estrarre la maggior quantità possibile di combustibili fossili dal territorio americano.
Insomma, sul tema “ambiente e clima”, ogni parola e ogni atto della nuova Amministrazione amplifica concetti da tempo considerati anacronistici quali: nazionalismo energetico; ambientalismo dannoso; perdita di posti di lavoro causata delle politiche green. Donald Trump ha dichiarato guerra all’ecosistema in nome di interessi economici nazionali che guardano alle relazioni internazionali in una chiave unicamente competitiva. L’eolico porta vantaggio alla Cina? Va eliminato. Il petrolio porta vantaggio alle imprese americane? Va estratto. E nessuna considerazione merita di essere fatta sulle ricadute che questo può avere sul pianeta e sulla popolazione, per quanto gravi possano essere.
È molto probabile che una politica così autoreferenziale porti benefici immediati all’economia statunitense favorendo, ad esempio, l’energivoro business digitale tanto caro ad Elon Musk o portando gli USA ad accordi con gli altri petrol-stati, come già emerso nelle prime dichiarazioni di Davos.
Scelte come queste, però, non sono certo prive di conseguenze e sembrano destinate a presentare un conto particolarmente salato all’Amministrazione Trump. Prendiamo ad esempio l’uscita dall’Accordo di Parigi. La mancata partecipazione degli Stati Uniti alle Conferenze Mondiali per il Clima offrirà alla Cina campo libero per prendersi la leadership mondiale dello Sviluppo Sostenibile, danneggiando enormemente la green economy americana – il cui volume è tutt’altro che trascurabile – e favorendo alleanze fino ad oggi impensabili tra economie virtuose tradizionalmente fedeli agli Stati Uniti.
Ne abbiamo colto già qualche importante anticipazione a Davos, dove la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, non solo ha ribadito che l’Europa resterà ferma sui suoi valori ecologici, ma ha anche lanciato il Global Energy Transition Forum, insieme a partner internazionali quali: Brasile, Canada e Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Perù, Sudafrica, Emirati Arabi Uniti e persino Regno Unito.
Davvero gli Stati Uniti vogliono chiamarsi fuori dalla politica globale per il clima lasciando ai propri concorrenti campo libero per diventarne i leader? No perché a quanto pare ci sono molti paesi che non chiedono di meglio!
Anche ipotizzando che Donald Trump sia talmente concentrato sui risultati a breve termine da disinteressarsi completamente delle nuove alleanze geopolitiche che si possono creare intorno alla transizione ecologica – e certamente questo non è molto credibile – resta il fatto che molte evidenze oggettive rischiano di trasformare questa decisione addirittura in un capo d’accusa per il nuovo Presidente in carica. È un fatto che l’ultimo decennio sia stato il più caldo di sempre e che la situazione stia peggiorando ogni anno di più; è un fatto che il fenomeno dei migranti climatici stia assumendo dimensioni enormi e incontrollabili; è un fatto che eventi climatici estremi si stiano moltiplicando pericolosamente anche sul territorio degli Stati Uniti.
Perché vedete, una cosa è cavalcare il populismo tipico delle campagne elettorali affermando: “L’oceano si alzerà. Ma a chi diavolo importa?”, e altra cosa è stare seduti nella sala ovale davanti ad una telecamera, chiamati dal mondo intero a giustificare la totale mancanza di interesse per la crisi climatica, dopo che migliaia di cittadini americani hanno perso parenti e amici per un incendio o per un nubifragio, mentre ogni singolo scienziato sulla terra attribuisce la tragedia al riscaldamento globale.
Con buona pace degli interessi economici nazionali, di qualunque nazione sia ben chiaro, le grandi crisi attraversate oggi dall’umanità hanno un respiro globale e impongono decisioni multilaterali. Nascondere la testa sotto la sabbia pensando esclusivamente a sé stessi, non solo non risolve i problemi ma determina dirette responsabilità delle quali prima o poi saremo certamente chiamati a rispondere!