Marirosa Iannelli, delegata dell’Italian Climate Network alla conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici di Glasgow, delinea temi, contraddizioni e criticità della COP26.
Domenica 31 ottobre a Glaglow verrà inaugurata la COP26, la conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che l’Onu organizza periodicamente per coordinare gli sforzi dei paesi nel contrastare il riscaldamento globale. In Scozia sono attesi ben 25000 delegati dei 197 paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi del 2015. Questa ventiseiesima COP, rimandata lo scorso anno a causa della pandemia, è molto attesa perché segna l’inizio di un decennio a detta di tutti cruciale per gli sforzi delle Nazioni Unite sul fronte ambientale e della sostenibilità sociale.
Saranno circa due settimane di colloqui, discussioni, trattative e dichiarazioni di impegno dei leader dei paesi, e dei loro delegati, per far partire finalmente quella conversione ecologica, economica e sociale che ci permetta di contrastare il riscaldamento globale. L’Accordo di Parigi del 2015 ha impegnato legalmente tutti i paesi ad azzerare le emissioni nette di gas serra in atmosfera entro il 2050; a mantenere il riscaldamento medio del pianeta a fine secolo entro i 2 gradi in più rispetto all’epoca pre industriale, e possibilmente entro il grado e mezzo in più. A Glasgow questi stessi paesi devono presentare i loro piani politici, energetici, industriali e finanziari per ottenere questi risultati. Uno dei tavoli cruciali ad esempio sarà quello del mercato delle emissioni di anidride carbonica: si dovrà stabilire un meccanismo efficace e giusto con cui i paesi virtuosi, che inquinano meno, possano “vendere” le loro quote di CO2 non emessa ai paesi che sono indietro o sono più dipendenti dalle fonti di energia fossili.
L’urgenza nasce dal fatto che siamo molto in ritardo. La temperatura media globale già oggi, a 80 anni dalla scadenza di fine secolo, misura 1,2 gradi di aumento. Le emissioni in atmosfera non solo non diminuiscono ma aumentano: un recente rapporto dell’ONU stima che nel 2030 avremo un aumento di anidride carbonica del 16% rispetto al 2010. Si parla di un picco storico ancora da raggiungere nei prossimi anni, prima di sperare di vedere scendere questo indicatore. Recentemente gli analisti dell’ONU hanno dichiarato che, andando avanti così il riscaldamento globale a fine secolo salirà di 2,7 gradi, superando di molto la soglia limite di 2 gradi, e disintegrando la soglia consigliata di 1,5 gradi. Gli scenari peggiori prevedono l’aumento di 3 o 4 gradi: basterà che in alcuni paesi emergenti come India e Brasile crescano i consumi e le produzioni industriali; o che gli Stati Uniti e la Cina, responsabili del 42% di tutte le emissioni di gas serra, non facciano partire politiche concrete di conversione ecologica. Per fare un confronto, tutta l’Africa emette poco meno del 4% dei gas serra. Se questo sarà il prossimo futuro: 2,3,4 gradi di media in più rispetto ad oggi, gli eventi climatici estremi, le perdite dei raccolti, l’impoverimento dei mari, e soprattutto scarsità di acqua potabile sul pianeta diventeranno conseguenze inesorabili e irreversibili.
Sui temi e sulle contraddizioni della COP abbiamo intervistato Marirosa Iannelli, coordinatrice della sezione Clima e advocacy di Italian Climate Network, presidente del Water Grabbing Observatory, e delegata alla conferenza di Glasgow per l’ITC. Di seguito la versione integrale dell’intervista trasmessa nella rubrica Ecosistema di Earth Day Italia, nel programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia.
Quali sono i nodi di questa COP26, i punti più importanti all’ordine del giorno?
Questa è sicuramente la conferenza sul clima più importante dopo quella del 2015, in cui 197 paesi si sono trovati per lo storico Accordo di Parigi. Dopo sei anni è giunto il momento di vincolarsi rispetto agli impegni che i paesi hanno dichiarato di voler mantenere per contrastare i cambiamenti climatici.
Uno dei principali punti è l’aggiornamento dei cosiddetti NDCs, i contributi nazionali volontari: rappresentano i vari piani di mitigazione mirati a contenere l’aumento delle emissioni di gas climalteranti, col fine ultimo di contenere l’aumento delle temperature terrestri entro fine secolo possibilmente entro il grado e mezzo. Questo sicuramente è l’obiettivo primario: che i paesi si possano accordare sull’aggiornamento di questi piani di mitigazione. Tengo a precisare che questi piani si traducono a livello nazionale nelle varie leggi, ad esempio per la transizione energetica o per quella ecologica, sempre nell’ottica di contenere i gas climalteranti.
Un altro punto importante è la finanza climatica. Cioè i fondi destinati a progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, in generale per tutti i paesi, ma in particolare per i cosiddetti paesi in via di sviluppo: quelli più vulnerabili e già fortemente impattati dai fenomeni metereologici estremi che derivano appunto dai cambiamenti climatici. In particolare sono in ballo 100 miliardi all’anno entro il 2025 che dovranno essere stanziati per i paesi più deboli. Mancano all’appello circa 20 miliardi. Questi fondi devono essere stanziati anno per anno ma già nel 2020, poiché la COP26 è stata rimandata per la pandemia, è saltato un anno.
Gli NDCs sono i compiti a casa che i paesi dell’Accordo di Parigi dovrebbero fare per raggiungere gli obiettivi di rallentamento del cambiamento climatico. Come si presentano alla COP26 i vari paesi, soprattutto i “grandi inquinatori” come Stati Uniti, Cina e Russia? Hanno la coscienza a posto? Hanno fatto il loro?
Purtroppo no. Intanto non tutti i paesi che saranno a Glasgow hanno presentato i piani di mitigazione: meno di 120 paesi su 197. In più siamo sostanzialmente fuori target: forse soltanto il Gambia ha presentato un piano in linea con gli obiettivi di contenimento delle emissioni climalteranti dell’Accordo di Parigi. Anche nel caso dei “grandi emettitori”, Cina e Stati Uniti in testa, siamo purtroppo lontani [dal target]. È notizia recente che il Congresso degli Stati Uniti ha bocciato il piano verde di Biden. La Cina sta vivendo una forte crisi energetica, e ha dato il via libera all’implementazione della produzione di carbone dalle proprie miniere. Quindi non siamo messi bene né sul breve né sul medio periodo: perché dobbiamo ricordare che, sì, stiamo puntando alla cosiddetta “carbon neutrality”, emissioni nette zero al 2050; ma per poter arrivare al 2050 abbiamo degli obiettivi a breve e medio termine, al 2030 e 2040, e al momento non ci siamo. Stando ai dati presentati fino ad oggi, secondo i modelli riusciremo a contenere le temperature entro 2,7 gradi. Quindi siamo veramente fuori target: lontani dallo scenario del grado e mezzo ma anche da quello dei 2 gradi. Abbiamo bisogno di aumentare la pressione, l’ambizione; però al momento non siamo assolutamente a un buon punto.
Il nostro paese?
Nella fase di negoziazione l’Italia si muove come Unione Europea. Noi abbiamo lavorato nell’ottica del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza al 2026, nda.) per la gestione dei fondi che arrivano dall’Europa; abbiamo anche il PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima al 2030, nda.) che è il piano legato all’energia; ma seppure non siamo grandi emettitori come Cina e Stati Uniti, figuriamo comunque nella Top 20 su 197 paesi: quindi abbiamo un ruolo determinante e abbastanza impattante in termini di emissioni. Anche noi dovremmo lavorare molto di più sui compiti a casa; soprattutto in tempi più brevi. Mi viene da dire che questa transizione ecologica in Italia non è ancora realmente partita. Abbiamo cambiato il nome e l’intestazione del nostro ministero (dell’Ambiente, nda.) però, ad esempio, ancora non abbiamo capito come non transitare dal gas (per passare dalle fonti di energia fossili a quelle pulite, nda.). Il nucleare non lo possiamo fare perché abbiamo votato un referendum contrario. Abbiamo però bisogno di energia, possibilmente pulita. Ancora però non sto percependo un reale piano di transizione, per esempio per evitare di investire soldi in infrastrutture per il gas. Siamo in attesa. Siamo in un momento di stallo. Spero veramente che si possa investire direttamente in energie rinnovabili senza transitare per il gas. Occorre anche lavorare a monte sui nostri consumi; a partire dal mondo dei trasporti: agendo sulla riduzione dei trasporti privati incentivando il trasporto pubblico e l’intermodalità; per finire ovviamente con la decarbonizzazione del settore industriale. Sicuramente il Paese ha avuto delle priorità legate all’emergenza Covid e alla campagna vaccinale. Però adesso credo sia arrivato il momento, per il Ministero, di dare un’accelerata in questa direzione.
Da notizie e anticipazioni pare che diversi paesi non potranno essere rappresentati a Glasgow, per mancanza di fondi o per problemi legati al Covid: ad esempio alcune isole e arcipelaghi del Pacifico. Sono quelli che rischiano di più da manifestazioni del cambiamento climatico come l’innalzamento dei mari. Com’è possibile? Sembra un controsenso che questi soggetti non siano presenti.
Ma questo purtroppo è una notizia che molti paesi non saranno presenti o lo saranno con delegazioni molto ridotte. Era nell’aria. Ricordo che quest’estate una delle più grandi ong ombrello d’Europa, Climate Action Network Europe, aveva preso posizione in maniera molto forte chiedendo che la COP fosse rimandata se non ci fossero state le condizioni per ospitare tutti i paesi del mondo e garantire una giusta rappresentatività. Un mese fa a Milano il nostro governo (co-organizzatore della COP26 insieme al Regno Unito, nda.) si era impegnato a lavorare insieme alla presidenza britannica per garantire la presenza di tutti i paesi, soprattutto i più vulnerabili. Un mese fa ho lasciato la pre-COP con un discreto ottimismo; ma ormai, a pochi giorni dall’inizio della COP, vedendo come stanno andando le cose e come si sono evolute in queste ultime settimane, purtroppo ho perso l’ottimismo. È un problema che non ci siano paesi determinanti come quelli delle piccole isole del Pacifico, perché hanno lavorato molto nella fase dell’Accordo di Parigi: hanno portato un contributo serio e oggettivo per mettere in luce le problematiche dei paesi più vulnerabili. L’assenza della loro voce sarà purtroppo determinante, in negativo.
È un problema di finanziamento del viaggio per queste delegazioni? Bisogna ricordare che sono previste 25000 persone ai vari tavoli della conferenza. Oppure la causa è la quarantena che dovrebbero fare molti di loro per entrare in Gran Bretagna?
Entrambe le cose. Da una parte ci sono le restrizioni del Regno Unito per via del covid; dall’altra i costi folli. Anche noi, come delegazione di Italian Climate Network, abbiamo fatto uno sforzo per essere presenti; e ci siamo dovuti muovere per tempo, perché i costi degli alloggi sono veramente elevati, improponibili. Inoltre non c’è disponibilità [di alloggi]. Va considerato che, fino a poche settimane fa, non si aveva la certezza di riuscire a partire, perché fuori dall’Italia e dall’Europa, la pandemia ancora sta creando notevoli problemi, esattamente come nel nostro paese qualche mese fa. Era difficile anche prenotare e organizzarsi con tanto anticipo. Da una parte quindi i costi mostruosi; dall’altra anche un meccanismo non facile di ingresso (in Gran Bretagna, nda.) legato alla quarantena per le persone non vaccinate. Il mancato vaccino per molte persone che arrivano in Europa è l’ennesimo sinonimo di disuguaglianza sociale che stiamo vivendo in questo periodo storico.
La cronaca di questi giorni ci parla di uragani in Sicilia che purtroppo mietono vittime e causano ingenti danni. Siamo nell’ambito del solito peggioramento del meteo che arriva con l’autunno, o stiamo assistendo già oggi agli effetti del cambiamento climatico che la COP26 dovrebbe cercare di frenare?
I fenomeni meteorologici estremi, che aumentano e sono sempre più violenti, sono sinonimo di un clima che cambia. Il clima è sempre cambiato, come dicono spesso anche i negazionisti; la differenza è che cambia molto rapidamente e con degli effetti molto più impattanti. Quindi non è il solito fenomeno meteorologico tipico dell’autunno, ma lo specchio di quello che sta succedendo: di come stanno cambiando la geografia, la disponibilità delle risorse e il meteo stesso. Dovremmo porre veramente l’attenzione a tutto ciò, perché se prima pensavamo al problema dei cambiamenti climatici come lontano da noi, che riguardasse solo l’Africa, il Sudamerica e l’Asia, adesso iniziamo a toccare con mano questi episodi sempre più frequenti. Adesso c’è il caso della Sicilia; qualche mese fa era la Germania. Ma lo tocchiamo con mano anche con la fusione [dei ghiacciai] del nostro arco alpino.
Rispetto ai fenomeni meteorologici estremi c’è anche un altro fattore da considerare: oltre agli ingenti danni agli ecositemi, c’è anche la perdita di vite umane. Paghiamo questi costi sia in termini di distruzione ma, più importante, di vite umane. È un imperativo morale riuscire a prevenirli: da una parte attraverso un sistema di gestione del rischio; dall’altra adoperandoci proprio per quella parte chiamata “adattamento ai cambiamenti climatici”: mettendoci nelle condizioni di avere strutture e infrastrutture adeguate a fronteggiare ciò che ormai già stiamo vivendo e vivremo. Se la COP26 finisse col migliore degli scenari, e quindi riuscissimo a vincolare quasi 200 paesi al contenimento delle emissioni di gas climalteranti per stare entro il grado e mezzo, avremmo comunque degli impatti sostanziali. Dobbiamo evitare il peggio: tra 1.5, 2, 3 e 4 gradi gli scenari che abbiamo di fronte sono molto diversi in termini di danni, di perdita della biodiversità, di presenza delle risorse disponibili (come l’acqua per esempio) e ovviamente di qualità della nostra vita.