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Ecosistema Interviste Pianeta

Il consumo di suolo non si arresta, la legge che lo contrasta invece sì.

L’Italia perde suolo naturale alla velocità di 2 metri quadrati al secondo. Le nuove forme di e-commerce reclamano nuovi nodi logistici che si moltiplicano fuori dalle città, consumando altro territorio. La proposta di legge che bloccherebbe l’erosione della biodiversità è arenata in Parlamento, mentre i costi nascosti della distruzione della natura crescono al ritmo di centinaia di milioni ogni anno.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale sul consumo di suolo, l’Italia perde ogni secondo 2 metri quadrati di terra fertile e naturale: 15 ettari al giorno, 57kmq quadrati nel solo 2020, anno in cui tra l’altro molte attività edilizie sono state rallentate dalla pandemia. Negli ultimi cinquant’anni il consumo di suolo ha corso però alla media di 6/7 metri quadrati al secondo; quindi i 2 di oggi sono rallentamento ma non un arresto del fenomeno. Per dare un’idea di quanto perduto dal dopoguerra basta il dato che negli anni ’50 poco meno del 3% del territorio nazionale era coperto da cemento, asfalto, o scavato a scopi estrattivi. Oggi la percentuale è arrivata al 7,11%, quindi è quasi triplicata. Si tratta di un’estensione paragonabile alle dimensioni della Toscana, o dell’Emilia Romagna. Bisogna specificare che il consumo di suolo riguarda in prevalenza le aree più fertili, quelle di pianura, con i terreni più facili da spianare e preparare all’edificazione; mentre, ovviamente, i territori montuosi, rocciosi, i fiumi e i laghi, che pure rientrano nel computo totale della superficie naturale, sono meno adatti o addirittura impossibili da trasformare a questi scopi. Più o meno un terzo della penisola non può essere edificato (ma neanche reso fertile o adibito a colture). Quindi la situazione è anche peggiore di come sembra dai numeri. La riprova è che le regioni più “consumate” sono le più pianeggianti e fertili: nell’ordine Lombardia, Veneto, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Puglia e Lazio; tutte sopra la media nazionale del consumo di suolo.

Perdere suolo naturale (boschi, campi, praterie, paludi, sorgenti, fiumi e torrenti, laghi, spiagge, boschi, ecc.) non rappresenta soltanto un danno ambientale. L’ISPRA ha quantificato i costi economici derivati dalla perdita dei cosiddetti “servizi ecosistemici”: i suoli naturali contribuiscono alla regolazione dei cicli stagionali (fondamentali per la produzione agricola), alla raccolta e distribuzione delle acque, alla resilienza dei territori contro eventi meteorologici estremi e alterazioni del clima. Eliminare lo strato superficiale del suolo diminuisce la quota di sequestro “naturale” del carbonio, del particolato e di altri inquinanti da parte delle piante; e, non ultimo, diminuisce la produzione agricola del Paese. La superficie agricola italiana dagli anni ’90 si è ridotta di un terzo: da 18 a 12 milioni di ettari; contemporaneamente la produzione nazionale di cibo è passata dal coprire il 90% circa del fabbisogno dei cittadini, all’attuale 80-85%, con il conseguente aumento delle importazioni dall’estero. Tutto ciò costa alla collettività centinaia di milioni di euro l’anno: la stima di questi costi oscilla tra i 500 e gli 800 milioni di euro annui, e l’ISPRA ha calcolato negli ultimi 8 anni “costi nascosti” per 3 miliardi di euro.

Da tempo si invoca una legge contro il consumo di suolo. Nelle ultime tre legislature, compresa l’attuale, sono stati presentati diverse proposte, tutte naufragate o mai arrivate alla discussione in aula. Al momento, la Proposta di Legge denominataDisposizioni per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli edificati è depositata dal marzo 2018 presso le commissioni congiunte Ambiente e Agricoltura. La proposta, almeno nel testo iniziale, impone di arrestare il consumo di suolo già a partire dalla data dell’entrata in vigore della legge. All’ISPRA e alle Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale, i proponenti assegnano il compito di controllare questo stop definitivo al consumo di suolo. Ai comuni e alle amministrazioni locali, che finora hanno deciso dove e quanto edificare, viene invece imposto di variare i piani urbanistici esistenti e futuri per impedire da subito il consumo di ulteriore suolo agricolo e naturale. Addirittura il testo iniziale prevede lo scioglimento dei consigli comunali che violassero alcune delle disposizioni normative. Però, a poco più di un anno dalla fine di questa “precaria” legislatura, l’iter è fermo e la discussione in aula non è ancora in calendario.

L’alternativa primaria al consumo di suolo è il rebuilding: costruire sull’esistente; non lottizzare ulteriori territori naturali o agricoli per costruire nuovi palazzi, infrastrutture, centri commerciali, parcheggi, nodi logistici, scuole ed altro, ma riqualificare o demolire e ricostruire su quanto già cementificato. Secondo i dati ISTAT in Italia ci sono 7 milioni di abitazioni inutilizzate; 500 mila negozi chiusi; 700 mila capannoni dismessi; 55 mila immobili confiscati alla criminalità e non riassegnati. La proposta di legge prevede incentivi e finanziamenti statali e regionali per il riuso e la riconversione dei suoli già urbanizzati e la rigenerazione di aree urbane degradate.

Nel numero di questo mese, La Nuova Ecologia, mensile di Legambiente, pubblica diversi articoli dedicati al tema del consumo di suolo. Ne abbiamo parlato con il direttore, Francesco Loiacono. Di seguito la versione integrale dell’intervista trasmessa oggi in “Ecosistema”, la rubrica di Earth Day Italia trasmessa da Radio Vaticana Italia.

Il consumo di suolo, nell’accezione più nota, è costruire palazzi dove prima c’era campagna; ma ci sono anche altre forme. Una la approfondite in questo numero de La Nuova Ecologia. Leggo testualmente: “Un tocco di smartphone, un clic del mouse, spesso dettato da un impulso all’acquisto che non corrisponde a una reale e immediata necessità, tanto basta a cancellare porzioni sempre più estese di territori italiani.”
Insomma non solo operiamo delle scelte su quello che compriamo, ma anche sul suolo che consumiamo; com’è possibile?

Francesco Loiacono – La Nuova Ecologia

È possibile perché l’e-commerce necessita di strutture a supporto. La principale è il polo logistico, il luogo dove vengono smistate le merci e dove i camion vanno ad approvvigionarsi. I poli logistici, chiamati in alcuni casi piastre logistiche, vengono realizzati per lo più in aree agricole, lontane ma non troppo dai grandi centri abitati. Per consegnare nella città di Milano le merci, i prodotti, i nostri acquisti, si fa ricorso a dei poli logistici nella Pianura Padana; ecco perché negli ultimi anni qui c’è stato molto consumo di suolo. Tra il 2012 e il 2019, solamente nel nord ovest, sono stati cementificati 202 ettari proprio per questi poli. le regioni più interessate sono il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna. Sulla copertina de La Nuova Ecologia, realizzata questo mese dall’illustratore Davide Spelta, c’è un camioncino che passando strappa e solleva aree agricole e le cambia con l’asfalto, a rappresentare questi impianti che vengono realizzati per consegnare le merci.

Da diversi anni c’è una proposta di legge ferma alle Camere. Come giudica questo testo che dovrebbe finalmente portare al varo di una legge italiana contro il consumo di suolo? Vedrà la luce secondo lei?

Non credo che possa vedere la luce nei prossimi tempi. Bisogna anche vedere se ci sarà un cambio di governo o di legislatura. Mi preme dire che è necessaria una norma nazionale che tuteli il suolo. È un bene prezioso; ha un valore; genera servizi ecosistemici: dall’abbattimento della CO2 all’erogazione di fertilità e quindi di biodiversità, la salubrità del nostro cibo. Va tutelato. Manca questa norma, e manca anche una corretta gestione con gli strumenti che già abbiamo a disposizione. L’Unione Europea è intervenuta in tal senso: la Commissione a novembre ha approvato una nuova strategia per il suolo che, nell’ottica del Green Deal, guida anche le strategie delle nuove norme nazionali. L’Italia dovrà prima o poi dotarsi di questa legge. L’obiettivo europeo è tutelare il suolo, così come vengono tutelate l’acqua e l’aria. Sentiamo parlare spesso di direttive a tutela dell’acqua e dell’aria; qualcosa del genere ancora manca per il suolo. La politica europea è indirizzata da una parola chiave: “salute” del suolo, che quindi va preservato e mantenuto in salute.

La situazione italiana bene o male l’abbiamo sotto gli occhi, ma il consumo di suolo che probabilmente più influirà sul nostro futuro è quello che accade in un altro continente: nella foresta amazzonica, che come sappiamo è in diminuzione. In questo numero pubblicate un’inchiesta sul land grabbing, il “furto di suolo” che è un fenomeno attinente; è intitolata “Amazzonia allo stremo”. Quali sono le conclusioni dell’inchiesta?

L’Amazzonia è allo stremo perché ci avviciniamo verso quello che gli scienziati definiscono il “tipping point”: un punto di non ritorno. Il disboscamento della foresta amazzonica è andato avanti negli ultimi anni: come denunciano alcuni scienziati brasiliani, ha subito una brusca accelerazione con all’insediamento del presidente Jair Bolsonaro; ma è comunque un fenomeno che va avanti a ritmo sostenuto almeno dagli anni ’70. Si dice che in questi cinquant’anni la foresta amazzonica abbia perso il 15% della sua estensione; se arrivasse a perdere il 25% o 30% si giungerà a quel punto di non ritorno. Vuol dire che non sarà più una foresta pluviale ma assomiglierà alla savana africana, con inestimabili conseguenze in termini di perdita di biodiversità e sul clima globale.

Tra le soluzioni che si potrebbero attuare anche nel nostro paese c’è il rebuilding cioè la ricostruzione su luoghi già edificati. Sembrerebbe la soluzione ideale per non consumare ulteriore suolo fertile; perché non prende piede? La città di New York da secoli costruisce sullo stesso territorio; perché in Europa e in Italia tutto questo non succede?

Probabilmente per interessi speculativi: è più facile costruire su suolo vergine per realizzare profitti più alti. Sicuramente non ci sono motivazioni di natura ecologica contro il rebuilding. Evidentemente è preferibile rinnovare un territorio, riqualificandolo con edifici nuovi, che abbiano un basso impatto ambientale e basso consumo energetico, garantendo a chi lo abiterà o vi svolgerà delle attività un grande risparmio sulle bollette. Costruire edifici nuovi, con i criteri della bioedilizia che riducono l’impatto ambientali, con materiali prestanti che abbiano un grande isolamento e possano garantire la riduzione dei consumi, è sicuramente un vantaggio. Non avviene perché forse è più facile ottenere margine economico costruendo su suoli “nuovi”.

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