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Verità e falsità sul “problema” cinghiali

Sono due milioni in Italia? Forse. Sono un’emergenza? Si. Vengono dall’est? Si e no. L’esperto: “Serve un patto sociale, una caccia fatta in un altro modo e un controllo serio. Non affidarsi ai soli cacciatori che hanno interesse a mantenerne alto il numero.”

Qualche settimana fa abbiamo parlato con un rappresentante di Coldiretti di quella che per loro è un’emergenza: l’invadenza dei cinghiali nei confronti degli spazi urbani e, soprattutto, delle coltivazioni agricole. Quanti sono i cinghiali in Italia? Sono troppi? È vero che provengono dall’est europeo? Perché cercano cibo in città e nei campi invece che nei boschi? Basterà aprire la caccia ovunque e tutto l’anno per risolvere il problema? “Ecosistema”, il programma radiofonico di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana, ha cercato di fare chiarezza sull’argomento, sgombrando il campo da luoghi comuni e dicerie con chi da anni si occupa della questione con metodo scientifico: Andrea Monaco, zoologo, autorevole esperto di animali problematici e specie aliene.

Dottor Monaco, poche settimane fa abbiamo dato voce a Coldiretti in occasione della manifestazione che hanno organizzato per chiedere interventi dello Stato contro l’emergenza dei cinghiali. Ammettendo che è una stima e che non è un censimento preciso, hanno comunicato il numero di due milioni di cinghiali presenti in Italia. È un numero credibile? E soprattutto: è eccessivo per il territorio italiano? Non possiamo permetterci due milioni di cinghiali sul territorio nazionale?

Il numero che ha fornito Coldiretti è una stima molto orientativa che non ha nessun fondamento di natura scientifica; ma è una stima fatta sul buon senso. È un numero plausibile.
In passato, intorno al 2012-2013, a partire dai dati di prelievo, quindi di caccia, avevamo stimato una presenza di circa un milione di animali sul territorio nazionale. È presumibile che questo numero sia un po’ aumentato; non so se sia arrivato a due milioni. Non eravamo neanche certi di un milione, ma avevamo dei buoni indizi numerici che ci facevano supporre che quella potesse essere una cifra plausibile. È importante sottolineare che, al momento, non esistono tecniche di censimento, di conteggio e di stima delle popolazioni in grado di darci un numero preciso; perché sono molto costose e comunque, su scala nazionale, sarebbero sostanzialmente impossibili da applicare per una specie così ampiamente diffusa.

Però conosciamo il territorio, e sappiamo più o meno quanti cinghiali può sopportare dal punto di delle risorse di cibo e di areale. Due milioni sono tanti?

Due milioni sono tantissimi. Il tema della “sopportabilità” è molto, ma non del tutto, legato al rapporto tra la specie e le attività dell’uomo. Voglio dire che dal punto di vista ecologico questa specie probabilmente può crescere ancora molto; il problema è che già ora entra in forte conflitto con le attività economiche dell’uomo: in particolare l’agricoltura, ma non solo. Iniziamo a stare un po’ stretti tutti quanti: aumentano gli incidenti stradali, e gli animali stanno entrando sempre di più nei contesti urbani. Comunque – anche se su questo non abbiamo dei buonissimi dati, soprattutto che riguardino l’intero paese – sicuramente la specie sta entrando in conflitto anche con la conservazione della biodiversità: sia per quanto riguarda gli aspetti vegetali, sia per l’impatto su alcune specie animali.

Quando si parla di specie selvatiche purtroppo ci sono molti luoghi comuni, errori, fake news ed anche un po’ di allarmismo. Vorrei stabilire qualche verità con lei, che è uno zoologo esperto di questo animale. Si sente dire spesso che i cinghiali si avvicinano agli abitati per il cibo lasciato nella spazzatura, addirittura preferendolo a quello che troverebbero in natura. Altre persone dicono che invadono le coltivazioni perché esauriscono il cibo presente nei boschi peri-urbani, e quindi sono costretti ad andare nei campi. Quanto c’è di vero in queste cose?

Sicuramente il cibo di origine antropica facilmente disponibile, per la specie è molto attrattiva. Quando parlo di cibo di origine antropica non intendo solamente i rifiuti. Questi sono effettivamente un grosso problema, perché sono un grosso attrattivo per la specie; tant’è vero che, in altri contesti europei per esempio, hanno già adottato dei cassonetti speciali, fatti in maniera tale che gli animali non possano ribaltarli, aprirli o comunque utilizzarne il contenuto. Ma sto parlando anche di altro cibo: per esempio quello “non protetto” che viene fornito a cani o gatti randagi o di quartiere; le colonie feline a cui viene somministrato cibo non protetto, e che quindi rimane a disposizione anche dei cinghiali. Addirittura ci sono tanti casi a Roma che, secondo me, sono il fenomeno più paradossale: abbiamo visto diverse immagini di persone che danno volontariamente il cibo a questi animali. La somma di questi elementi fa sì che ci sia tantissima disponibilità alimentare, molto facilmente raggiungibile, e non soggetta alle fluttuazioni stagionali come sono le ghiande o altre cose che seguono i cicli naturali. Quindi, questi contesti molto vicini all’uomo, si configurano come ottimali e molto attrattivi per questi animali.

A proposito di cicli naturali: è vero che la grandissima parte di queste centinaia di migliaia di cinghiali non è più il cinghiale autoctono italiano, ma una specie proveniente dall’est europeo, con differenze anche nell’etologia, nella forma e nel comportamento dell’animale?

Questa è una delle informazioni scorrette che circolano, ed ormai sembra che si siano consolidate nella testa delle persone. Non è l’unica. Prima di rispondere premetto che la circolazione di queste notizie, che non hanno fondamento reale almeno formulate in questi termini, è deleteria al fine di raggiungere una soluzione del problema; perché crea delle false conoscenze che vanno ad inquinare il dibattito e fanno alzare i toni. Noi invece non abbiamo bisogno della pancia per risolvere questo problema, ma di soluzioni tecniche, di approcci tecnico scientifici, se vogliamo portare a casa qualche risultato. Quello del cinghiale alloctono (non originario del territorio, nda.) è uno dei temi su cui si sono esercitati in molti. Tutti sembrano essere esperti della materia.
La specie sicuramente è stata oggetto di introduzione di soggetti provenienti, in particolare, dall’est europeo. Questa è una pratica cominciata tanti anni fa e proseguita sicuramente almeno fino alla fine degli anni ’80 inizio anni ‘90. Poi è stata progressivamente sostituita da immissioni fatte con cinghiali di allevamento locale, nazionale. La cosa importante è che gli studi di genetica, fatti in Italia ma non solo – questo è un fenomeno avvenuto in tutta Europa – ci dicono che la specie in Italia non ha perso la sua identità genetica: è e rimane il cinghiale che era prima. Semplicemente, una piccola parte di DNA [alloctono] si è incastrata nel DNA originario; il che ci testimonia il fatto che sono state fatte introduzioni con soggetti dal centro Europa. Per di più – altro tema che è spesso oggetto di discussione – la genetica ci dice che anche i rilasci di soggetti ibridi, oppure gli incroci avvenuti naturalmente con animali allevati (il maiale e il cinghiale sono la stessa specie), hanno sì lasciato traccia nel DNA degli animali, ma soprattutto localmente. Ogni tanto capita di vedere degli animali con delle macchie chiare, o con la coda a ricciolo e non dritta come nella specie originaria. Ma anche questi [ibridi] non hanno trasfigurato il patrimonio genetico della specie, che rimane una specie autoctona.

Quindi anche la prolificità delle femmine è la stessa?

La prolificità è un processo complesso che non posso qui sintetizzare. La cosa importante è che la prolificità è legata soprattutto alla disponibilità di cibo, e a quale velocità questi animali possono aumentare di peso. C’è una soglia di peso sotto la quale una femmina non può partecipare alla riproduzione. Se una femmina trova ovunque cibo da mangiare, di natura antropica in particolare, farà molto in fretta a raggiungere quella soglia di peso; e parteciperà alla riproduzione a sei o sette mesi, anziché a un anno e mezzo o due anni e mezzo come in natura. Questo è il vero problema.

Una delle proposte di Coldiretti, e non solo, è controllare maggiormente il numero di cinghiali: piani di controllo; piani di selezione; addirittura si è parlato di “eradicazione” della specie da alcune parti del paese attraverso una caccia aperta tutto l’anno, e permessa ai proprietari dei fondi agricoli che sono maggiormente minacciati dai cinghiali. Secondo voi esperti questa è una possibile soluzione al problema?

Anche su questo c’è una confusione terminologica che non è secondaria. Non è solamente un vezzo di natura linguistica, ma un tema che spesso viene utilizzato per polarizzare le posizioni tra i pro e i contro…

Ho fatto un errore, ho parlato di “caccia”: Coldiretti in realtà ha parlato di “selezione”.

Esattamente. Questo è molto importante. Innanzitutto rimane un dogma a livello nazionale: che dentro le aree protette non si può cacciare, ad eccezione del Trentino in cui ci sono alcune aree protette in cui è possibile. Dobbiamo distinguere tra la caccia, un’attività ludico-ricreativa prevista dalla Legge 157 del ’92, dall’attività di contenimento delle popolazioni: una possibilità che la legge ci dà, sia dentro che fuori le aree protette, per provare a risolvere problematiche di varia natura, dagli impatti sulle colture a quelli sulla biodiversità. In questi anni abbiamo visto che la caccia, cioè il prelievo venatorio fatto per tre mesi l’anno nelle modalità in cui avviene ora, sicuramente non è in grado di tenere a bada le popolazioni [di cinghiale], e neanche di ridurle. Il motivo è semplice, ed è una cosa che abbiamo verificato non solamente a livello nazionale ma anche europeo: chi caccia ha interesse che le popolazioni siano sempre importanti, in maniera da garantire a fine stagione un carniere molto nutrito e potersi dividere i frutti della caccia. Quindi non possiamo chiedere a chi in primis è interessato ad avere successo, di ridurre la sua potenzialità di successo. Almeno non chiediamoglielo blandamente.
Quello che sappiamo, mettendo assieme le conoscenze sviluppate in Europa, è che probabilmente l’unica strada che possiamo percorrere per limitare le popolazioni, passa attraverso diverse soluzioni di natura tecnico-scientifica, “una delle quali” è la riduzione delle popolazioni attraverso la caccia e il controllo. La “caccia” fatta in un altro modo: pensando a ridurre le popolazioni, non a tenere alti i risultati a fine stagione venatoria. Il “controllo” fatto seriamente: con tutte quelle persone, quei soggetti, il mondo venatorio e gli agricoltori che, sotto l’egida, il coordinamento e dopo essere stati formati da un ente pubblico, possono contribuire a risolvere questo problema nazionale.
C’è bisogno ovviamente di una sorta di patto sociale, di un’assunzione di responsabilità. Cioè bisogna che diversi portatori di interessi vadano tutti nella stessa direzione: ridurre le popolazioni. Personalmente non mi trovo d’accordo con tutte le posizioni assunte dai portatori di interessi del mondo agricolo ma, per quanto legittimo, non possiamo mettere sullo stesso piano l’interesse di chi fa un’attività ludico-ricreativa, la caccia, con quello di chi, come gli agricoltori, fa impresa, reddito e sostiene le proprie famiglie.

Abbiamo lasciato fuori da questo discorso la filiera delle carni del cinghiale. Anche questa è una proposta di Coldiretti: renderla remunerativa; una risorsa soprattutto per le comunità locali, più lontane dai grandi centri urbani. Quanto è legale in questo momento la filiera delle carni di cinghiale? Quanto c’è di illegale in questa filiera, che parte dalla caccia e arriva alla ristorazione e nei negozi di specialità locali e tradizionali?

Quanto non lo so. Ciò che so perché è uscito più volte ed è stato anche scritto, è che probabilmente qualcosa [di illegale] ci dovrebbe essere. Quanto meno, mossi dal dubbio, ci dovrebbero essere dei controlli molto stringenti. Mi viene un po’ da sorridere quando sento parlare di filiera della carne di cinghiale, perché penso alle difficoltà che hanno molte delle nostre aree protette a collocare questi animali quando li catturano per attività di controllo; che siano vivi oppure in spoglie. È difficilissimo: si fanno delle gare a prezzi ridicoli; e spesso le gare vanno deserte. Perché? Credo che ci sia un mercato bloccato da qualcosa; il ché a molti di noi fa pensare che ci sia tanto “nero” in circolazione: tanti animali che ufficialmente non sono né dichiarati né visibili, per esempio all’autorità sanitaria, che vanno a finire sulle tavole delle persone. Credo si debba mettere a fuoco questa criticità e capire quali sono i problemi che non rendono fluida la circolazione di questa, che credo sia una risorsa. Una volta fatto ciò potremmo anche parlare di filiera della carne, di filiera corta, e di tutta una serie di cose che possono anche essere un’opportunità su scala locale, non necessariamente nazionale.

In questo periodo storico i lupi si stanno riappropriando dei territori ancestrali. Sono utili al controllo del cinghiale in qualche percentuale? O come dice qualcuno preferiscono dedicarsi agli allevamenti? Addirittura c’è chi dice che la nuova presenza dei lupi nelle aree boschive, spinge i cinghiali sempre più vicino all’uomo. Quanto c’è di credibile in tutto ciò?

Rispetto all’effetto di avvicinamento all’uomo per la paura della predazione, non abbiamo dati importanti a supporto; quindi è un’ipotesi che potrebbe avere parziale plausibilità, ma sicuramente al momento rimane un’ipotesi non supportata.
Per quanto riguarda il possibile prelievo o l’attività di “controllo naturale” delle popolazioni di cinghiale fatti dal lupo, posso dire che se anche il lupo dovesse crescere oltre i duemila individui stimati che ci sono sul territorio nazionale, sicuramente non sarà mai in grado di contenere una popolazione così importante di cinghiali. Non può essere [un fattore di regolazione] anche per motivi di natura biologica. Quindi, ove possibile, possiamo solo sfruttare il piccolo aiuto che il lupo ci può dare, ma non pensiamo di delegare ai predatori naturali il contenimento di popolazioni che ormai sono andate oltre il limite di una popolazione in equilibrio con il contesto.
Ciò che si può dire rispetto alla dieta è che sicuramente il lupo ha nel cinghiale la sua preda selvatica di elezione, in particolare nei piccoli, nei giovani e in quelli molto anziani e fisicamente malmessi; e che comunque, in contesti in cui le prede selvatiche sono molto disponibili, il lupo ha sicuramente una preferenza verso di esse rispetto alle prede domestiche. Quindi avere una comunità di prede ben sviluppata, a buone densità – in questo caso di ungulati come cervo, capriolo e cinghiale – è un aiuto anche per ridurre l’eventuale pressione del lupo sugli allevamenti.

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