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Coldiretti: contro i cinghiali chiediamo la possibilità per gli agricoltori di difendersi con le armi

Le denunce di Coldiretti: gestione emergenza e risarcimenti insufficienti; amministratori locali più attenti dei nazionali; danni per centinaia di milioni; ambientalisti “minori” spesso causa del problema. Proposte: “piano di contenimento” affidato ai Carabinieri Forestali; nell’emergenza dare agli agricoltori possibilità di difendere le coltivazioni con le armi; promuovere la filiera legale delle carni selvatiche per lo sviluppo economico delle aree rurali.

Il 7 novembre Coldiretti ha animato una manifestazione davanti a Montecitorio per chiedere alle istituzioni di agire contro la cosiddetta “emergenza cinghiali”. Secondo la confederazione che riunisce agricoltori e allevatori, il numero di questi animali sarebbe raddoppiato negli ultimi anni salendo a circa due milioni, concentrati soprattutto sulla dorsale appenninica. I manifestanti hanno lamentato danni ingenti alle coltivazioni, sottolineando anche la pericolosità degli ungulati quando invadono strade e autostrade. Nell’occasione è stato presentato al Governo un pacchetto di proposte per la risoluzione del problema.
Ecosistema, il programma radiofonico di Earth Day italia trasmesso da Radio Vaticana, ne ha parlato con Stefano Masini, professore associato di diritto agrario all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, e responsabile dell’Area Ambiente e Territorio della Confederazione Nazionale Coldiretti.

Professor Masini iniziamo descrivendo il problema per gli agricoltori rappresentato dai cinghiali, e in generale dagli animali selvatici. Si possono quantificare i danni per i coltivatori?

Il tema statistico è uno degli elementi che contrassegna la patologia. La serie delle competenze in materia instaurano un quadro burocratico complesso: la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato, però la materia è articolata a livello regionale; le regioni delegano gli interventi a livello provinciale; le province sono articolate attraverso gli Ambiti Territoriali di Caccia che hanno competenze in materia di programmazione faunistica.
La serie multipla delle competenze fa sì che noi non abbiamo dei dati credibili. Quindi le stime sono generiche e ammontano, per quanto riguarda il danno, a circa 100 milioni di euro. Chiaramente questo è il frutto di una serie di dati che vengono raccolti sui territori, che spesso però non esprimono la costruzione obiettiva della somma che viene erogata a titolo di indennizzo; perché molti danni non vengono denunciati.
Spesso ci sono delle complessità amministrative per poter procedere all’erogazione. Quindi gli agricoltori subiscono il danno, non lo denunciano e si moltiplicano l’insofferenza e il disagio, per un problema che rimane i margini della possibilità che gli enti pubblici hanno di intervenire (soprattutto nelle aree interne e marginali) per offrire un contributo risolutivo. Il problema è sicuramente centrale e riguarda più ampiamente il modo in cui si organizzano le relazioni di vita nelle aree lontane dalle città, dove tutti i problemi sembrano attenuarsi.

Che danno può ricevere un agricoltore dalla presenza assidua di cinghiali su un suo campo? Quanta percentuale di raccolto perde? In che periodo?

Chiaramente il problema si pone in relazione al sovrappopolamento: quando la capacità portante del territorio supera determinati limiti di densità, sono frequenti occasioni di danno nei campi coltivati, dove il cinghiale e altri ungulati trovano possibilità per soddisfare il proprio fabbisogno nutritivo. In particolare nelle estati più siccitose le aree boscate risultano meno ospitali e i cinghiali si avvicinano ai campi coltivati. Questo provoca dei danni, sia in relazione al fatto che l’alimentazione è appunto prevalentemente legata ad essenze coltivate (secondo uno studio di ISPRA statisticamente circa il 70%), sia per il fatto che sono animali pesanti, che si muovono in branco, e quindi ci sono anche dei danni legati all’impatto sulle coltivazioni: consideri il grano che viene “allettato” (piegato dal peso degli animali, nda); o anche il passaggio lungo i filari delle vigne con i tralci che vengono asportati; oppure il sedimento del terreno che risulta scavato. Quindi spesso ci sono dei danni anche difficilmente calcolabili, che derivano da una sostanziale domesticazione di questi animali, derivanti anche da linee di sangue che sono l’esito di incroci con specie non autoctone (originarie dell’Italia, nda).
Fatto sta che in alcune regioni i dati mostrano come la presenza di questi animali non sia gestibile sul piano tecnico-scientifico. L’amministrazione della Toscana ha rilevato circa 150 mila cinghiali abbattuti, un numero che costituisce una frazione del numero complessivo degli animali presenti (Coldiretti ne stima 2 milioni in tutta Italia, nda). Immagini questi animali che frugano nei campi alla ricerca di essenze vegetali sufficienti a integrare la loro dieta. Gli agricoltori spesso si trovano costretti, come unica soluzione, a recintare i terreni, con delle spese enormi.

Coldiretti e altre associazioni hanno presentato un pacchetto di proposte al Governo per arginare questo problema. Può dare qualche dettaglio di queste proposte? Ciò che è emerso è relativo soltanto al prelievo venatorio (caccia, nda.). Il pacchetto è più articolato?

Se è emerso [il prelievo venatorio / caccia] è emerso un dato diverso e comunque falso rispetto gli obiettivi di lavoro; perché abbiamo parlato di “piani di contenimento”. I piani di contenimento sono attività di interesse pubblico, che devono essere svolte in una chiave di controllo dell’equilibrio faunistico, come attività di ripristino delle condizioni dell’ecosistema. Con il prelievo venatorio non hanno nulla a che fare: sono attività diverse; chi le fa è un incaricato di pubblico servizio. Tanto è vero che ai fini dell’attuazione del contenimento chiediamo il coordinamento del Comando Carabinieri Forestali, territorialmente competente, in grado di allestire e mettere a punto delle misure di intervento che prevedono la collaborazione di soggetti “particolarmente” formati, sulla base di corsi che vengano promossi dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale o da istituti regionali equipollenti, in modo da garantire non solo l’efficacia ma anche la qualità tecnica delle prestazioni.
A seguire c’è anche l’obiettivo di promuovere una filiera delle carni di questi animali selvatici, che attualmente in numero enorme alimentano filiere (irregolari, nda) destinate al consumo, prive delle caratteristiche igienico sanitarie di sicurezza che occorre introdurre per garantire la salute dei consumatori. Quindi [vogliamo] tentare, soprattutto nelle aree interne, di tradurre anche queste attività in occasioni di lavoro e di valorizzazione di quelle forme di economia rurale che possano trattenere agricoltori e altri operatori in attività capaci di produrre esternalità positive. Noi riteniamo che, nelle aree interne, soltanto il presidio agricolo sia un antidoto all’abbandono e renda possibile tutte le misure di intervento, di ripristino, di conservazione della stabilità idrogeologica e paesaggistica di quei luoghi.

Se ho ben capito questo personale, ovviamente indirizzato in seguito a studi e censimenti locali, verrebbe formato da personale già esistente delle forze dell’ordine: i carabinieri forestali. Però si è parlato di dare un ruolo anche ai produttori, quindi essenzialmente agli agricoltori. È corretto? Anche loro farebbero parte di questo personale incaricato in futuro del contenimento del problema?

Per quanto riguarda gli agricoltori (o meglio: proprietari e conduttori dei fondi rustici) interessati da incursioni di ungulati che mettono a rischio le produzioni, sempre attraverso il rispetto delle norme di pubblica sicurezza, si prevede che sia data la possibilità, in quanto muniti di porto d’armi, di poter intervenire in caso di emergenza. Legittimando cioè un’attività di salvaguardia dei terreni e delle produzioni.

Le associazioni ambientaliste oppongono degli studi che affermano che, se fatta male, la caccia al cinghiale aumenta il problema. Di solito la caccia per la vendita delle carni viene fatta su animali adulti che, se tolti dal branco, spingono gli altri a disperdersi e a proliferare. Siete d’accordo con questi studi e con queste valutazioni? Ne tenete conto per queste proposte che fate al Governo, e per il futuro dibattito che sicuramente ci sarà sia con il Ministero dell’Agricoltura sia con il Ministero dell’Ambiente?

In generale il contributo delle associazioni ambientaliste alla soluzione del problema è molto scarso, direi irrilevante; anzi mi sembra che ci sia una debolezza sul piano scientifico nell’affrontare [questi] temi, con l’importante eccezione di Legambiente, con la quale condividiamo intensi momenti, anche storicizzati, di studio, di analisi soprattutto, delle politiche di territorio dove questo problema si inserisce.
Come ricordava anche nell’occasione della recente manifestazione dei Coldiretti il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri, se si dovesse utilizzare un criterio scientifico, in alcune aree il cinghiale dovrebbe essere “eradicato”, laddove sia una specie alloctona (non originaria del territorio, nda). Questa parola chiaramente è avversata da esponenti ideologicamente organizzati di talune associazioni ambientaliste, marginali nella cultura del paese. Penso invece che sarebbe importante dialogare, così come riteniamo di procedere e continuare, perché la fauna è un bene comune: gli agricoltori soffrono danni, in date circostanze, ma la fauna è anche un elemento di ricchezza del territorio. Quindi la capacità di una buona gestione significa anche inserire la fauna in un disegno di valorizzazione qualitativa. L’agricoltura non produce solo beni ma anche servizi, turismo, accesso e conoscenza dei luoghi; associa spesso il proprio marchio alla qualità e alla fruizione di quegli stessi luoghi. E luoghi abitati, ricchi di biodiversità, sono anche un fattore competitivo per una nostra agricoltura che mostra le qualità migliori in un territorio presidiato in termini responsabili. Per cui si pone il problema del cinghiale proprio perché esito di una mancata e insufficiente gestione, di cui spesso la causa è legata proprio a posizioni ideologiche di taluni esponenti minori del mondo ambientalista.

Un altro messaggio che viene fatto passare alla pubblica opinione è che gran parte del problema sia dovuto anche agli allevamenti illegali di cinghiali che poi vengono liberati a scopo venatorio. Questo lo verificate sul territorio? Esiste questa zona oscura, e che parte ha nel quadro generale? La soluzione proposta da alcuni: circondare le coltivazioni con recinti elettrici, può essere una soluzione definitiva? Dal punto di vista economico è fattibile per gli agricoltori?

La recinzione dei terreni potrebbe essere un’operazione fattibile se fossero messe a disposizione delle risorse. Recintare i fondi non sembra possa rappresentare una priorità in sede di [Legge di] Bilancio, rispetto alle esigenze di valorizzare molte altre misure più utili, in un paese che frana e si allaga; in un paese in cui, in alcune aree, a stagioni alterne ci sono allarmi desertificazione o siccità.
Voglio aggiungere che, forse, la qualità del nostro territorio è legata anche alla possibilità di godere e fruire di paesaggi senza trovare barriere o recinzioni che ci riportano ad un paesaggio medioevale: oggi sempre più cittadini trascorrono il loro tempo libero in mountain bike, correndo in campagna, o anche girovagando alla ricerca di funghi. Penso che la possibilità di avere la libertà di attraversare strade, sentieri, ponti, campi, sia un elemento della migliore organizzazione delle campagne; piuttosto che creare dei recinti o dei muri.
Pensare che la causa o la concausa del problema sia legata ad allevamenti clandestini mi sembra molto riduttivo; non fosse altro perché i controlli sul territorio sono numerosi: allevare illegalmente cinghiali (che sono sostanzialmente maiali) significa violare la disciplina igienico-sanitaria; perché tutti gli animali devono essere allevati e registrati presso le ASL, e [la presenza di] forme diffuse di allevamenti non regolari sul nostro territorio mi sembra impensabile in ragione della rete dei controlli.

Questa ipotesi è indicata come una causa passata: cioè l’origine della diffusione del cinghiale dell’est nel territorio peninsulare. Siete d’accordo? L’avete dato per assodato o lo negate in qualche misura?

Può darsi che sia stata causa in passato. Oggi in ogni caso vige un divieto stabilito con legge, quindi non rappresenta più un elemento della discussione.

Lei ha fatto cenno ad altri problemi del nostro paese. Quali sono le emergenze più sentite dagli agricoltori italiani? E quale posto occupano i cinghiali nell’elenco delle emergenze?

Chiaramente l’emergenza più sentita in questi giorni è l’emergenza climatica. La difficoltà di convivere, abitare e soprattutto lavorare in luoghi esposti a eventi climatici oggi avversi. L’agricoltore paga il prezzo dei cambiamenti climatici in termini di mancanza di interventi di mitigazione e adattamento. Questo è ciò che l’agricoltore avverte. Ad esempio, il cambiamento del clima che oggi attraversa le diverse stagioni, è anche veicolo della diffusione di nuove fito-patologie. Ci sono state presenze di insetti; forse lo avvertiamo anche nelle città: vediamo il coleottero che aggredisce le palme, e magari nella piazza della nostra città vediamo l’intervento dei servizi del Comune che asportano la pianta quando le fronde sono ormai disseccate. Ma in campagna, alcune infestazioni più gravi, come quella della cimice asiatica, in particolare nel nord est, ha provocato oltre 200 milioni di euro di danni per l’aggressione ai frutteti. Questa cimice punge il frutto e si sviluppano delle malformazioni interne che ne pregiudicano la commercializzazione. C’è un altro insetto (la Drosofilla suzukii, il moscerino dagli occhi rossi, nda) proveniente dal continente asiatico, che è responsabile della perdita della produzione di ciliegie; e poi abbiamo visto la xylella, che ha devastato l’intera regione olivicola nel sud della Puglia. Insetti che si adattano alle nuove condizioni climatiche, [le cui presenze] sono l’esito del commercio globale: del fatto che l’Italia magari ha “porti chiusi” per l’accesso delle persone, ma “porti aperti” per l’accesso delle merci, senza alcun controllo. Perciò queste patologie sono un altro elemento di grave preoccupazione per gli agricoltori, perché non sono controllabili con gli strumenti e le tecnologie disponibili per combattere queste nuove avversità.

Può riassumere per punti il pacchetto di misure richieste al Governo con la manifestazione del 7 novembre?

Piano di contenimento sul territorio, da autorizzare affidandone il coordinamento al Comando Carabinieri Forestali; con la partecipazione di personale controllato, selezionato e opportunamente formato sul piano tecnico-scientifico; assegnando anche una funzione di tutela dei terreni coltivati agli agricoltori, abilitati ad un intervento diretto, sia pure nel quadro di misure che ne conformano l’attività alle regole di pubblica sicurezza.
E attivazione di un percorso organizzato di filiera per la messa in commercio delle carni degli animali abbattuti; anche con finalità di beneficenza, con la cessione [delle carni] ad associazioni che allestiscono queste forme di solidarietà (mense, refettori, campi d’emergenza, nda).

Il Ministro dell’Agricoltura ha annunciato uno sblocco dei risarcimenti per i danni alle coltivazioni. Anche per i danni da cinghiali ci sono fondi insufficienti o lungaggini che alla fine danneggiano il produttore?

Quello dei risarcimenti è sicuramente un problema di ammontare delle risorse disponibili, che finora si sono dimostrate insufficienti. Gli agricoltori ricevono normalmente queste somme con un ritardo di due o tre anni rispetto all’evento denunciato. Si tratta di indennizzi, quindi non sono delle coperture integrali del danno subito.
Soprattutto: gli agricoltori non producono per ottenere un risarcimento, ma per commercializzare un prodotto. Se da un punto di vista tecnico è magari possibile ottenere il risarcimento dell’uva, non è pensabile ottenere il riconoscimento della perdita di reddito che deriva dalla mancata commercializzazione del vino. Si tratta di due valori economici completamente diversi. Se un agricoltore, in alcune situazioni, può trovarsi soddisfatto del risarcimento del danno per alcune colture come il grano, si trova [invece] in condizione di estrema difficoltà economiche nel momento in cui coltiva uva e olio; perché sono prodotti alla base di una filiera il cui valore aggiunto è legato all’immissione in commercio del prodotto finito.

Come sappiamo questa materia è molto vasta, ed è regolata da diversi enti: l’agricoltura è competenza delle regioni; poi c’è l’Europa che mette il cappello sulle Politiche Agricole Comunitarie; e voi vi siete rivolti al Governo per ottenere queste misure contro i danni da cinghiali. Vede più un problema o una risorsa in questa ripartizione di competenze e di inviti all’azione? Ha fiducia nel dialogo che si è aperto col Governo per l’accoglimento delle vostre richieste?

Nell’occasione della manifestazione abbiamo visto che gli esponenti di tutti i partiti hanno ritenuto di portare il loro contributo di idee. Questo significa che, a partire dalla Signora Ministro delle Politiche Agricole, fino a leader importanti di partiti dell’opposizione, c’è stata una significativa condivisione del problema, e anche l’appello a farsi carico delle proposte presentate per la soluzione. Quindi, anche in relazione ad emendamenti oggetto di discussione nella Legge di Stabilità, immaginiamo che ci possa essere un’attenzione finale, in ritardo rispetto all’emergenza del problema, ma che possa trovare un consenso anche più ampio rispetto a quello del Governo, e avere una più ampia valutazione positiva dei partiti che siedono in Parlamento.
La frammentazione delle competenze è un problema del nostro paese, che è articolato e frammentato. Ma non possiamo rinunciare alla diversità del nostro modello di comunità, che ha nei comuni un elemento fondamentale della nostra fisionomia costituzionale, per ciò che rappresentano in termini di servizi essenziali della persona, di identità culturale e territoriale, per arrivare poi alle amministrazioni. Dobbiamo dire che spesso, in questa materia, l’attenzione degli enti locali dotati di minori competenze è stata superiore a quella delle amministrazioni centrali. Proprio perché è un problema fortemente sentito nei territori, dalle persone che risiedono lontane; e questo isolamento politico-culturale è stata anche la causa dell’insufficiente attenzione prestata nelle sedi ministeriali romane.

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