Dal rapporto di di Greenpeace la fotografia di un fenomeno preoccupante. A rischio economie locali e sicurezza alimentare
Tra i molti motivi di preoccupazione per la salute degli ecosistemi marini c’è anche quello dell’overfishing; ovvero lo sfruttamento eccessivo delle riserve di pesce.
Quando si affronta questo argomento di solito si contrappongono le giuste preoccupazioni degli ambientalisti, alle esigenze di quanti vivono di pesca, magari a livello familiare e in paesi dove le proteine del pesce rappresentano gran parte della dieta della popolazione.
Un recente rapporto di Greenpeace mette però in luce un altro aspetto della questione: il recente dossier “Pesce sprecato” denuncia che molta parte del pescato delle coste dell’Africa occidentale non finisce sulle tavole delle popolazioni locali ma diventa mangime per gli allevamenti di pesce di paesi lontani.
Su Ecosistema, programma di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana Italia, ne ha parlato Giorgia Monti, responsabile della Campagna Mare di Greenpeace Italia.
Quando si parla di spreco alimentare si fa sempre riferimento a quel cibo che viene acquistato e poi non consumato e quindi buttato nella spazzatura come avviene a circa un terzo della produzione globale di cibo. In questo caso invece si parla di altro, cioè di pesce che viene pescato, ma non per il consumo umano.
Purtroppo si parla sempre dello stesso sistema: c’è un mondo più fortunato che può permettersi una vasta varietà di cibo, tanto da arrivare appunto a sprecarlo e a gettarlo via, e un’altra parte del mondo dove le risorse non sono numerose, parlo per esempio dei paesi dell’Africa occidentale, dove quello che dà il mare ovvero le risorse della pesca sono fondamentali per le popolazioni costiere.
Nonostante la FAO avvisi che le risorse sono in crisi e che quindi a disposizione di queste popolazioni c’è sempre meno pesce, vediamo che si è sviluppato un business molto pericoloso che quello di prendere pesci ed utilizzarli per produrre farina di pesce. Non più quindi per l’alimentazione diretta delle persone del luogo, ma per un prodotto, le farine di pesce, che viene poi utilizzato dalle industrie mangimistiche per gli allevamenti intensivi che spesso sono nel mondo più sviluppato, in Europa oppure dall’altro lato del mondo fino in Asia.
Quali sono i paesi più colpiti e quali sono i numeri del fenomeno?
Durante l’ultimo anno e mezzo il nostro ufficio africano ha condotto una ricerca e ha documentato la presenza di oltre 40 impianti di produzione di farine e oli di pesce in attività a marzo del 2019 tra la Mauritania, il Senegal e il Gambia. Consideriamo che negli ultimi 25 anni le catture totali diciamo di pesci pelagici sono più che duplicate e solo in Mauritania tra il 2014 e il 2018 le esportazioni di farine e oli di pesce sono raddoppiate. È un fenomeno che è in rapida crescita.
Le farine di pesce finiscono per lo più negli allevamenti, l’acquacultura si sta sviluppando a un punto tale che oggi copre circa il 50% dei prodotti ittici presenti sul nostro mercato. Le farine di pesce vengono usate per lo più per alimentare pesci carnivori come orate e branzini comunemente sulle nostre tavole, ma purtroppo sempre di più anche per specie erbivore come le tilapie o la carpa, più comuni magari in altri mercati, per svilupparne e potenziarne la velocità di crescita.
È evidente l’impatto che questo fenomeno ha sull’equilibrio dell’ecosistema marino. Che impatto ha invece sulle popolazioni di quei paesi?
Per farsi un’idea dell’impatto basta pensare che in Senegal lavorano con la pesca artigianale oltre 600.000 persone e se stimiamo le persone coinvolte anche in modo indiretto, come le donne che lavorano il pesce e lo vendono ai mercati, arriviamo addirittura a 825.000 persone. Parliamo quindi di un impatto socio economico perché stiamo danneggiando un’economia locale fortissima, ma stiamo anche andando a minare la loro sicurezza alimentare perché per esempio in Senegal il pesce rappresenta circa il 70% delle proteine annali consumate.
Per capire dove vanno queste farine di pesce abbiamo analizzato quello che è il mercato dell’import export e guardando i dati abbiamo scoperto che anche l’Italia è un po’ responsabile di quello che cosa succedendo perché è comunque uno dei principali importatori di farine di pesce e di olio, per esempio dal Senegal.
I paesi occidentali agiscono comunque nell’ambito della legalità internazionale. Che cosa manca da questo punto di vista?
Da un lato c’è sicuramente la necessità di regole più stringenti in loco. Lavoriamo per spingere a livello locale i governi locali a regolamentare la pesca, ovviamente con un’ottica ragionata quindi riducendo la pressione della pesca, ma favorendo quelle che sono le economie locali e la sicurezza alimentare fermando subito l’utilizzo di questi pesci per la produzione di farina di pesce e favorire invece la pesca artigianale che sfama le popolazioni locali. Dall’altro lato ci vorrebbero più controlli e trasparenza perché è vero che si agisce all’interno delle norme, ma quello che abbiamo scoperto guardando i dati dell’import/export è che comunque questi prodotti vengono lavorati spostati sul mercato internazionale in maniera poco chiara. Ancor meno trasparenza secondo noi c’è a livello del consumatore: quando mettiamo un pesce nel piatto sappiamo se è di acquacoltura o se è pescato, ma non veniamo informati di tutta quella che è la catena che ha portato quel pesce nel nostro piatto.
Secondo noi i consumatori che sono sempre più sensibili hanno voglia di comprare prodotti che non hanno gravi impatti né ambientali né sociali e devono essere messi al corrente di come viene prodotto il cibo che finisce nei loro piatti.
Questo rapporto fa parte di un lavoro più ampio che Greenpeace sta facendo per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di comprendere cosa c’è dietro un prodotto alimentare e sulla necessità di mettere poi in campo comportamenti conseguenti.
Abbiamo una campagna che riguarda il cibo e la trasformazione della produzione ai tempi nostri. Si è arrivati a un’industrializzazione degli allevamenti con allevamenti intensivi che ovviamente sono di suini, bovini, polli e purtroppo anche di pesce. Si parla poco dell’acquacultura, ma è un sistema molto simile a quello che avviene a terra.
Questo lavoro è quindi inserito all’interno di una narrativa più grande con cui stiamo cercando di cambiare il paradigma e spingere un tipo di produzione che sia più sostenibile e a minor densità e un consumo che sia più mirato.
Io dico sempre che non è sano se si trova al supermercato del pesce molto economico non è sano perché comunque c’è stato un costo ambientale per portare quel pesce fino a noi; quindi è meglio forse mangiare meno, anche un qualcosa che ci costa un po’ di più, ma che è pescato in un modo che è comunque a basso impatto ambientale, un pesce che è locale e stagionale.