Alex Bellini ha iniziato a navigare su zattere improvvisate i dieci fiumi del pianeta più inquinati dalla plastica. Obiettivo: aprire gli occhi del mondo sul problema.
Il 90% della plastica che inquina i mari e gli oceani di tutto il pianeta proviene da soli 10 grandi fiumi dell’Africa e dell’Asia. Sono fiumi maestosi e noti, come il Nilo, il fiume Giallo, il Niger, l’Indo e il Mekong; altri sono meno conosciuti ma altrettanto importanti: come il fiume Amùr, al confine tra Russia e Cina, e il fiume Hai che lambisce Pechino. Alex Bellini, esploratore e avventuriero, come lui stesso si definisce, ha deciso di navigare questi grandi fiumi per raccontare la bellezza di questi luoghi ma anche la devastazione causata dall’inquinamento. Ha già percorso il Gange ed è alla vigilia della prossima impresa: attraversare in barca a remi il Great Pacific Garbage Patch, la distesa di plastica galleggiante nell’oceano pacifico tra Stati Uniti e Giappone. “Ecosistema”, il settimanale radiofonico di Earth Day Italia in onda su Radio Vaticana Italia, lo ha intervistato nella puntata del 18 giugno.
Come è nata l’idea del progetto “10 fiumi 1 oceano”?
Ha un’origine molto lontana, perché risale più o meno al 2008: l’anno in cui attraversai l’Oceano Pacifico in barca a remi da Lima, dal Perù, all’Australia. In quell’occasione ebbi la possibilità di vedere da vicino, con i miei occhi, lo stato di degrado in cui già versava il Pacifico. All’epoca ero molto interessato alla componente personale dell’esplorazione, intesa come auto-conoscenza. Avevo quindi gli occhi e l’attenzione tutti rivolti verso, e dentro, me stesso. I tempi poi sono cambiati. Il senso dell’esplorazione è mutato. Diventando più adulto, maturando, ho cercato di dare risposte a quelle domande che tutti quanti, almeno una volta, ci siamo posti: chi siamo? dove stiamo andando, non solo come individui ma anche come collettività? Se vogliamo trovare una risposta a questa domanda dobbiamo anche riuscire a comprendere la complessa relazione (talvolta non-relazione) tra essere umano e Natura. Quindi ho deciso di investire i prossimi tre anni in un progetto, che consiste nel portare l’attenzione, nel risvegliare lo spirito delle persone attorno ad un argomento che ormai non possiamo più ignorare, che è molto presente; e che forse, a differenza di tutti i problemi globali che dobbiamo affrontare in quest’epoca moderna, è la materializzazione di un comportamento di convenienza che ci ha guidato fino ad oggi: la plastica. Rispetto all’emergenza climatica, o alla desertificazione, all’acidificazione (degli oceani, nda.) o chi più ne ha più ne metta, il problema della plastica vede un solo responsabile, l’uomo, che comunque è anche l’unico capace di apportare un qualche cambiamento. Quindi voglio essere parte di questo cambiamento; voglio accompagnare le persone in un viaggio di scoperta, di conoscenza, e magari anche di presa di responsabilità.
Lei ha iniziato il progetto con un tipico viaggio di auto-coscienza e auto-scoperta: quello in India. È stata questa la motivazione della scelta, o un’altra prettamente pratica? Il viaggio è iniziato a cavallo fra febbraio e marzo, quando è partito per discendere il Gange.
Una ricerca del 2017 mise in scala i dieci fiumi del mondo più inquinati dalla plastica. Inizialmente il progetto era quello di navigare per primi i fiumi più brevi. A causa di problemi logistici abbiamo dovuto modificare velocemente la nostra strategia e, dovendo fare una scelta, ho voluto partire dal Gange perché, ai miei occhi, era molto curiosa questa doppia presenza del Gange nella vita degli indiani: da una parte c’è il fiume più sacro dell’india, “Mama Ganga”, la madre generatrice di tutto il popolo indù; dall’altra il fiume più inquinato, quello più messo in ginocchio, anche per effetto dei rituali religiosi dei milioni di pellegrini che tutti i giorni affollano il Gange, costringendolo a uno sforzo enorme per auto auto-regolarsi e auto-rigenerarsi dagli shock. Navigando sul Gange ho potuto educarmi e apprendere come, di fatto, la soluzione non sia una: il problema della plastica ha molte sfaccettature. Ci sono problemi culturali: poca cultura ambientale e molta ignoranza sull’argomento. Anche perché i ragazzi che frequentano le scuole sono in aumento, ma non abbastanza. Poi c’è un aspetto di superstizione: l’idea ottimistica che qualcuno verrà comunque dopo di noi a ripulire il Gange. Cosa che ovviamente non può succedere. Tutto mi ha portato a vivere questo primo viaggio, comprendendo anche gli intrecci, talvolta molto complessi, di questo problema.
Tra le frasi del suo diario di viaggio, una mi ha colpito in particolare: “L’unico modo per salvare il Gange – ma ovviamente può essere esteso a tutti gli altri fiumi e in generale dell’ambiente – è quello di connettere emotivamente le persone al luogo fisico in cui vivono”. Questo immagino che possa valere per tutti: anche per noi, per i nostri fiumi, i nostri mari e le nostre campagne.
Si, questo è un elemento centrale secondo me. Credo che non si possa comprendere, e tantomeno amare e quindi proteggere, qualcosa che non conosciamo, che non ci ha toccato da vicino. Quindi bisogna creare una connessione emotiva per recuperare questo senso di responsabilità, questo amore, questa volontà di proteggere un elemento: la Natura, tanto per usare un termine generico. Alcune persone di una ONG in India (il gruppo di Temsutula Imsong, nda.) tentano proprio di fare questo: portare i bambini a frequentare i luoghi più inquinati, i “ghat”, le scalinate attraverso cui gli indiani raggiungono e hanno accesso al Gange. Sono anche le più inquinate a causa di cattive abitudini, vecchie di migliaia di anni (come defecare all’aperto e abbandonare offerte, anche di plastica, alla corrente del fiume, nda.). Questa ONG ha pensato di invitare i bambini locali a frequentare la scuola su queste gradinate, creando con l’attività scolastica e ricreativa un’associazione emotiva; cosicché, crescendo, i bambini possano avere un ricordo, e attraverso esso possano prendersi cura del fiume.
È evidente che il problema va oltre la plastica, perché qui stiamo cercando innanzitutto di ricreare una connessione con l’elemento Naturale. Ho vissuto per sette anni in Inghilterra, dove tre quarti dei bambini in età scolare, tra i sei e i dodici anni, passano meno tempo all’aria aperta dei detenuti. Questo vuol dire che accediamo sempre meno alla Natura. Ci facciamo incuriosire sempre meno da quello che la Natura può offrire; riconoscendo in essa, invece, un elemento ostile: “nella Natura si nascondono e si trovano i pericoli”. Tutto ciò, associato al fatto che l’attività ludica si fa sempre più in casa: “connessi” ma sempre più disconnessi dalla Natura, certamente non ci aiuta. Perché in questo momento la Natura ci sta chiedendo aiuto: per la prima volta non è in grado di gestire, di auto-rigenerarsi dagli shock. Ma non abbiamo orecchie per sentire questo grido di aiuto: siamo troppo concentrati ad occuparci del nostro singolo albero per renderci conto che siamo immersi in una foresta.
Lei ha scelto di navigare questi fiumi con delle zattere costruite con materiali trovati sul luogo. Materiali non naturali, ed anche plastica. Perché questa scelta? Ovviamente lei avrà preparato anche le prossime imprese: ci sono differenze nella forma di queste imbarcazioni, che lei dovrà costruire, per la conformazione dei fiumi?
Ho scelto di navigare a bordo di zattere costruite da me perché mi sembrava l’occasione ideale per restituire valore a ciò che altrimenti sarebbe considerato uno scarto. Sul Gange mi sono servito di quattro bidoni che una volta contenevano cloro, di assi di legno e di canne di bambù che abbiamo raccolto, non proprio sulla sponda del Gange, ma nei pressi. L’alternativa era arrivare in India con un’imbarcazione super tecnologica, costruita in un altro paese, servendosi di altra manodopera, conoscenze e metodologie di costruzione. Sembrerà ridicolo, ma effettivamente sono andato in India portando soltanto un coltellino multiuso. Con questo, e con il sogno di costruire una zattera per navigare lunghe distanze, ho riunito attorno a me delle persone che mi hanno aiutato. Questo è il ricordo più bello che ho del viaggio. Un viaggio che voleva condividere un messaggio per me molto forte: siamo tutti sulla stessa barca, e questa barca è stata costruita da tante persone che ci hanno messo la propria manodopera, la propria conoscenza, la propria passione. Effettivamente sulla zattera non ero più solo, ma c’era un gruppo nutrito di persone che mi ha aiutato: tutti indiani che non parlavano una parola di inglese, quindi lascio immaginare come può essere stata la fase di costruzione della zattera.
I dieci fiumi che navigherò da qui ai prossimi anni sicuramente sono diversi l’uno con l’altro, per quanto riguarda la geografia e la quantità d’acqua. I diversi periodi dell’anno contribuiranno a creare difficoltà e sicuramente differenze. Affronteremo tutto questo con il mindset dell’esploratore: colui che accetta di accedere ad ambienti sempre nuovi, cercando di far buon uso della saggezza, della conoscenza acquisita sul campo, dell’aiuto e del supporto delle persone sul posto.
La prossima impresa però non sarà su un fiume ma nell’Oceano Pacifico. Lei attraverserà il Great Pacific Garbage Patch, la grande chiazza di plastica fluttuante tra il Giappone e gli Stati Uniti. Quando partirà? Quali sono le differenze fra navigare nell’oceano aperto e in un fiume?
Partirò dall’Italia il 25 di giugno. La navigazione potrebbe partire intorno alla seconda settimana di luglio. Il tentativo che voglio compiere è navigare attraverso la parte più densamente inquinata del Great Pacific Garbage Patch: circa 100 kg [di plastica] per chilometro quadrato. A differenza di quello che si potrebbe pensare non si tratta di un’isola galleggiante; non si tratta di attraversare un continente di plastica. È addirittura peggio: si tratta di attraversare un ammasso, un minestrone, una poltiglia di plastica che è stata micro frammentata per effetto dell’irraggiamento del sole; e che ha portato anche i grossi oggetti in plastica ad essere sminuzzati in piccolissimi pezzettini che a volte non si vedono neanche con l’occhio del satellite. Questo forse ha contribuito nel corso degli ultimi anni a far sottovalutare il problema. Ora il problema è così grave che il 70% per cento della plastica non galleggia, perché è finito sul fondale marino. Quindi l’idea in tutto (il Gange e i dieci fiumi) è di far vedere dove il problema ha origine: nella cultura delle cattive abitudini; e dall’altra parte mostrare anche dove va a finire questa plastica, qual è la destinazione finale di questo lungo viaggio che compie una qualunque bottiglietta di plastica gettata nel fiume. Anche perché, a differenza dei fiumi, dove uno può percepire la [propria] responsabilità, l’oceano di per sé è un ecosistema di nessuno, o di tutti, perché sono acque internazionali.
Quindi c’è un problema anche di responsabilità: chi investe per andare a raccogliere quella plastica in mezzo al pacifico? È evidente che la responsabilità sia un po’ di tutti perché, proprio come scrivo sulla mia vela che mi accompagnerà lungo tutti i dieci fiumi. “Siamo tutti sulla stessa barca”. Per la prima volta nella storia dell’uomo c’è qualcosa che ci unisce; che va oltre i limiti e le distanze; che va oltre la cultura; che va oltre le razze. Questo problema legato alla plastica è qualcosa che possiamo cogliere come l’opportunità di sentirci tutti parte di un unico progetto, di un’unica squadra. È un’occasione che non possiamo farci scappare perché persa questa, e perso anche il senso di responsabilità, il nostro futuro sarà veramente incerto, e probabilmente non sarà nulla di buono.
Noi potremo seguire questa impresa, e le altre nove che seguiranno, sul sito www.10rivers1ocean.com, dove ci sarà anche un diario quotidiano del viaggio…
Esattamente, terrò un diario. Per tornare alla domanda di prima, la differenza sostanziale è che la prossima missione attraverso il Pacifico navigherò su una barca a remi con la quale ho attraversato nel 2006 e nel 2008 l’Atlantico e il Pacifico. È una barca attrezzata di tutto punto, sicura per le navigazioni oceaniche, che conosco già bene perché ci ho navigato per oltre cinquecento giorni. Quindi è un po’ come tornare a frequentare un vecchio amico. Da una parte non vedo l’ora di tornare in mezzo all’oceano, remando su questa barca; dall’altra, onestamente, c’è una piccola parte di me che è un po’ la teme, perché comunque è una vera e propria avventura: si sa quando si parte non si sa quando si arriva.