I lockdown non risolvono la crisi climatica
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Cambiamento Climatico Ecosistema Interviste

I lockdown non risolvono la crisi climatica

Antonello Pasini (CNR) fa il punto sul riscaldamento globale e sul climate change, che non possono essere risolti da lockdown più o meno lunghi o inverni freddi. La soluzione è sempre quella degli Accordi di Parigi, ma con sempre meno tempo a disposizione

A fine 2020 due scienziati italiani del CNR Antonello Pasini e Fulvio Mazzocchi hanno pubblicato un articolo scientifico sulla rivista internazionale Global Sustainability, in cui si evidenziano le caratteristiche comuni di due calamità contemporanee: la pandemia di Covid19 e il cambiamento climatico.

Lo studio fa notare che, come la pandemia è cominciata localmente, per poi diffondersi incontrollata a tutto il mondo, anche il cambiamento climatico ha avuto origine da azioni dell’uomo che, su scala locale sono evitabili o rimediabili, ma una volta innescato il meccanismo gli effetti diventano devastanti. Inoltre, come per il Covid19, anche per il cambiamento climatico le conseguenze peggiori arrivano dopo un periodo di latenza in cui i sintomi non sono manifesti. Per il virus questo periodo è di 15 giorni, per il cambiamento climatico si parla di decenni, ma per entrambi se non si agisce in fretta poi si paga un prezzo molto più caro.

Pasini negli ultimi anni ha pubblicato alcuni libri che hanno il merito di chiarire al grande pubblico un argomento complesso come quello del clima, e mettono in relazione il riscaldamento globale con alcuni altri fenomeni sociali che caratterizzano i nostri tempi. Con “Effetto serra effetto guerra”, scritto insieme al diplomatico Grammenos Mastrojeni, il fisico del CNR ha approfondito il legame tra le crisi climatiche, come siccità o alluvioni, e le grandi migrazioni umane dei nostri giorni, ad esempio dall’Africa verso l’Europa. Un argomento che ha anche grande rilevanza politica, visto che contraddice il falso mito che vorrebbe i migranti spinti unicamente da motivi economici o, peggio, criminosi. Nel suo ultimo libro “L’equazione dei disastri”, Pasini dimostra invece come i disastri “naturali” che periodicamente colpiscono l’Italia causando enormi danni economici e sociali, sono la diretta conseguenza di una serie di fattori: e come in un’equazione matematica a certi fattori consegue un risultato certo, anche per i disastri possiamo studiare in anticipo queste cause e neutralizzarle prima che sia tardi.

Versione integrale dell’intervista ad Antonello Pasini andata in onda su Radio Vaticana Italia nel programma “Il Mondo alla Radio” dell’11 febbraio 2021

 

Sta passando il primo anno di questa “emergenza Covid”. Ha avuto effetti mitigatori sull’inquinamento e sul clima? Dobbiamo ricordare che in questo anno ci sono stati meno trasporti aerei, sia commerciali sia di linea; la contrazione del commercio ha probabilmente diminuito anche il trasporto navale; poi c’è stato il fermo del turismo in gran parte del mondo. Le industrie stesse hanno avuto lunghi periodi di lockdown, quindi purtroppo hanno dovuto fermare i macchinari e le ciminiere; e anche il traffico autostradale è diminuito in qualche misura. Avete riscontrato degli effetti benefici?

Sicuramente vediamo che sono diminuite le emissioni in generale, appunto per la mancanza di traffico e la diminuzione delle industrie. Le due cose, la diminuzione delle emissioni di inquinanti pericolosi per l’atmosfera e quella di anidride carbonica che “guida” il riscaldamento globale, hanno però effetti diversi. Tutto dipende dal tempo di “vita in atmosfera” di questi inquinanti. Quando dalle marmitte delle macchine escono quelli che noi chiamiamo “inquinanti primari” il tempo di vita in atmosfera, in generale, è di 10-15 giorni. Perciò è chiaro che se facciamo un lockdown e fermiamo il traffico per 15 giorni, alla fine di questo periodo troveremo ben pochi di questi inquinanti nell’atmosfera, perché sono tutti i caduti a terra e hanno finito il loro tempo di vita. Per quanto riguarda la CO2 invece succede qualcosa di diverso: quando immettiamo l’anidride carbonica in atmosfera, questa rimane per decenni, se non per secoli. Quindi un lockdown di 15 giorni, o anche di uno o due mesi, per la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera fa ben poco. Ecco perché abbiamo avuto dei miglioramenti locali dell’inquinamento atmosferico nelle città, ma per quanto riguarda il riscaldamento globale l’effetto è stato praticamente nullo.

Passando alle politiche governative, nazionali e internazionali, le sembra che questa emergenza sanitaria abbia contribuito ad accelerare quella conversazione ecologica che chiedevano gli accordi di Parigi? O piuttosto è successo che il problema ambientale sia stato messo in secondo piano rispetto al blocco dell’economia e al problema sanitario?

Sicuramente l’urgenza del Covid ha messo inizialmente in secondo piano qualsiasi altro problema. Però, nel momento in cui si è pensato di ripartire, almeno dopo la prima ondata del Covid-19, i politici si sono mossi in maniera diversificata. L’Europa per esempio ha pensato che non possiamo tornare alla vecchia normalità, perché era proprio quello il problema che crea il cambiamento climatico, ed in parte favorisce anche lo “spillover”, cioè il passaggio dei virus dagli animali selvatici all’uomo. Quindi si sono fatti il Recovery Plan, il Green New Deal, e il Next Generation EU, andando appunto verso un’economia decarbonizzata. Poi negli Stati Uniti è cambiato il capo della Casa Bianca; anche lì quindi ci sono prospettive diverse. La Cina stessa sembra stia virando verso una una [produzione di] energia più sostenibile. Quando si mettono in moto meccanismi di questo tipo, può succedere che ci sia un effetto a cascata in tutto il mondo; per cui se parte qualcuno, effettivamente poi altri gli vanno dietro. Nella fisica dell’atmosfera abbiamo i cosidetti tipping points, cioè i punti di non ritorno: quando ad esempio i ghiacci si sciolgono sempre più vicino al Polo Nord, e a un certo punto non si può più tornare indietro. Questi sono tipping points negativi per la nostra salute e il nostro benessere. Però, in economia si possono innescare questi punti di non ritorno quando c’è una cascata di effetti che va verso una certa tendenza economica. Quindi in questo caso sarebbero positivi, per il clima e per tutti noi.

Al grande pubblico potrebbe sembrare che uno o più inverni freddi, come quello che in effetti stiamo vivendo, possano invertire la tendenza del riscaldamento globale. È così?

Purtroppo no, perché uno deve guardare appunto tutto il globo: per questo si chiama riscaldamento globale. Nel momento in cui scende aria [fredda] dal Polo Nord verso le medie latitudini, l’Europa, gli Stati Uniti e l’Asia, dall’altra parte c’è dell’aria calda che va verso i poli, contribuendo a far fondere ancora di più i ghiacci. Quindi questa è soltanto una fluttuazione da un anno all’altro a livello regionale, di un subcontinente; ma a livello globale purtroppo le “forzanti”, cioè gli influssi dell’anidride carbonica, continuano a far aumentare mediamente il riscaldamento globale.

Parlando di riscaldamento globale, e localizzandolo appunto in maniera errata nella sola Italia, purtroppo ancora molte persone affermano che un clima un po’ più tropicale, poco più caldo in inverno e più umido in estate, è quello che magari ci auspicheremmo. In fondo andiamo in vacanza proprio in luoghi che hanno questo tipo di clima. Non sarebbe auspicabile avere un’Italia e un Mediterraneo più caldo?

La vignetta di Max Paiella

Purtroppo no, perché ci sono tante controindicazioni a tutto questo. Innanzitutto le ondate di calore molto feroci in città, che mettono in difficoltà le persone più deboli (gli anziani, gli asmatici, i cardiopatici), che nascono da inquinanti di tipo diverso, come l’ozono. Quindi ci sono veramente cascate di problemi uno sull’altro. Pensiamo poi alla siccità e all’agricoltura: al fatto che con il riscaldamento globale dovremmo spostare delle colture. Quando sposti un olivo, prima che ricominci a fare le olive e ci vogliono degli anni, se non dei decenni. Sono tutte cose che vanno pianificate. Poi c’è il fatto che questi anticicloni africani così feroci portano le ondate di caldo, ma quando si ritirano sull’Africa arrivano le ondate di freddo; e quando arriva aria fredda su aria calda e umida preesistente, soprattutto su un mare caldo, succedono disastri come alluvioni “lampo” con chicchi di grandine grossi come palle da tennis e cose di questo tipo. L’impatto del cambiamento climatico è veramente esteso e non è auspicabile perché va a mettere in difficoltà la nostra società e la nostra organizzazione; ad esempio le città costiere, come Venezia e tante altre, tutte le nostre strutture a rischio e così via.

A questo proposito il bacino del Mediterraneo non dovrebbe proteggerci in qualche maniera? In fondo noi non siamo esposti agli oceani come il Nord America, il bacino dell’Oceano Indiano o il Giappone, che storicamente sono colpiti da questi grandi fenomeni estremi.

Sicuramente nel Mediterraneo non abbiamo gli uragani che ci sono nell’Atlantico, come in Florida e sulle coste degli Stati Uniti. Perché il mar Mediterraneo è più piccolo, ha una temperatura dell’acqua un po’ più bassa, e quindi non si riescono a creare questi grossi sistemi. Ci sono i “medicanes”, gli uragani mediterranei, che sono più piccoli perché non hanno la forza e lo spazio per estendersi in grande come gli uragani [oceanici]. Il Mediterraneo ha comunque degli eventi estremi, perché la temperatura sta aumentando, come anche la violenza dei tornado: cioè le trombe d’aria marine, Quindi non abbiamo grossi uragani ma abbiamo altre manifestazioni altrettanto gravi.

C’è poi un’altra conseguenza del clima che cambia: la “migrazione climatica”. Lei se ne è occupato, proprio in riferimento al bacino del Mediterraneo, in uno studio di un paio di anni fa, e nel suo libro “Effetto serra effetto guerra” in cui evidenziato come gran parte delle migrazioni umane dall’Africa attraverso il Mediterraneo siano causate dai cambiamenti climatici. In base a quali parametri ha potuto distinguere i migranti economici da quelli climatici? Quali sono stati i risultati di questo studio?

Lo studio, apparso un paio di anni fa, è riferito al periodo immediatamente precedente alle primavere arabe, perché volevamo togliere le “perturbazioni” conflittuali di natura non climatica. Quindi siamo andati a studiare il periodo 1995-2009, ed abbiamo visto che i cambiamenti meteo climatici riescono a spiegare quasi l’80% della variabilità, da un anno all’altro, dei flussi di migranti da dieci paesi del Sahel all’Italia. Abbiamo indagato un periodo non sospetto, non perturbato da altri effetti (conflitti, crisi economiche, nd.) che sono nati anche in parte dal cambiamento climatico e adesso probabilmente predominano questa migrazione. In ogni caso il cambiamento climatico ci mette lo zampino perché nella fascia del Sahel abbiamo una desertificazione “galoppante”: il deserto si sta mangiando i terreni fertili. Si sta cercando di fare qualcosa ma non è semplice. Il cambiamento climatico è comunque una concausa importante di migrazioni. Queste persone purtroppo sono dei disperati che fuggono certamente dalle guerre, dalla fame ma, anche dal cambiamento climatico.

Un altro fattore che abbiamo imparato a riconoscere come primario è la “salute” delle calotte polari: l’estensione e il perdurare dei ghiacci perenni. Come stanno in questo momento? Siamo vicino a un punto di non ritorno?

Purtroppo si, per quanto riguarda il Polo Nord: la superficie glaciale è diminuita di circa 3 milioni di chilometri quadrati negli ultimi quarant’anni. Ovviamente è un numero enorme. Per fare un paragone, pensiamo che l’Italia è ampia 300.000 chilometri quadrati; quindi abbiamo perso dieci “italie” di ghiaccio negli ultimi quarant’anni al Polo Nord. Il fatto che il ghiaccio si sciolga fa sì che venga assorbita più radiazione che energia dal sole: un circolo vizioso che ci sta portando rapidamente verso un Polo Nord privo di ghiaccio in estate. Dobbiamo agire in fretta perché altrimenti sarà un circolo vizioso che non riusciremo più a controllare. Per quanto riguarda i ghiacciai montani, anche questi hanno un arretramento notevolissimo. Lo vediamo molto sulle Alpi. Il vero problema è che l’estensione dei ghiacci, attualmente, non è in equilibrio con la temperatura che abbiamo adesso. Cioè [i ghiacci] stanno rispondendo lentamente al riscaldamento degli ultimi vent’anni. Quindi, se anche fermassimo il riscaldamento allo stato attuale, questi ghiacciai fonderebbero ancora per un po’. Dobbiamo evitare che sulle alpi i ghiacciai si riducano al 20% di quelli che abbiamo oggi. Questo è da evitare in tutti i sensi: sia per il turismo, ma anche per l’irrigazione della Pianura Padana che già ha sofferto di tante siccità. Questo sarebbe un fenomeno assolutamente grave.

Un’altra causa del riscaldamento della Terra, che spesso viene tralasciata nei dibattiti, è l’attività solare: l’irradiamento di energia dal Sole. In teoria, una diminuzione di questo irradiamento ci potrebbe “salvare”? Cioè, banalmente: meno caldo arriva dal Sole, meno si riscalda la Terra? Succede? è successo? sta succedendo?

Assolutamente. Quello del Sole è un fattore, un influsso esterno, fondamentale. Sappiamo che ci sono stati dei periodi freddi: il cosiddetto “Minimo di Maunder” di qualche secolo fa (Un periodo di 70 anni di bassa attività solare tra il XVII e il XVIII secolo, i cui effetti si sono manifestati in quella che è nota anche come la “piccola era glaciale”, nda.). Abbiamo avuto un “aiuto” al riscaldamento globale dal 1910 al 1960: c’è stato un aumento di temperatura collegato ad un aumento dell’attività solare. Quello che vediamo, però, è che negli ultimi decenni l’attività solare ha cominciato a diminuire la potenza che irradia verso la Terra. Quindi in realtà l’attività solare ci porterebbe verso un raffreddamento (della temperatura media globale, nda.). Il problema è che, nel contempo, le emissioni di gas serra sono state talmente forti da ribaltare questa tendenza a cui avrebbe dato luogo il Sole, portandoci verso un riscaldamento ancora più grande. Per il futuro le previsioni sono molto incerte. Molti dicono che continuerà a diminuire l’energia che ci arriva dal Sole, e questo potrebbe aiutarci un po’ a risolvere il problema. Qualcun altro ha previsto che nel prossimo decennio potrebbe esserci un leggero aumento (dell’irradiamento, nda.) che quindi andrebbe ad aggravare la situazione. Purtroppo le previsioni dell’attività solare sono più incerte delle previsioni dei nostri modelli climatici. Quindi in ogni caso noi dobbiamo fare la nostra parte: diminuire le emissioni di gas serra.

Qual è la nostra parte? Che cosa possiamo fare per porre un freno al riscaldamento globale?

Innanzitutto prendere coscienza che esiste un problema grave. Poi cambiare il nostro stile di vita secondo questo punto di coscienza a cui siamo arrivati. Ma questo ovviamente non basta. Bisogna innescare dei circuiti virtuosi dal basso: il risparmio energetico; il consumo sostenibile; la produzione di energia, il più possibile distribuita con impianti locali: una casa in campagna può diventare indipendente dal punto di vista energetico con il fotovoltaico, l’eolico, i pannelli termici solari, il geotermico e così via. Poi l’ultima cosa, probabilmente fondamentale, è spingere sui politici. Qui si tratta di fare una transizione energetica epocale che va gestita dalla politica; perché pretendere di farne pagare i costi alle fasce più deboli ovviamente non è giusto, e non è sostenibile alla lunga anche per problemi di pacificazione nazionale e di equità tra le classi sociali.

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