Vivere green

Anggun: la neve sul Sahara? Una catastrofe.

Intervista esclusiva alla cantante indonesiana, testimonial e attivista di campagne sociali e ambientali, autrice di una canzone (“Snow on the Sahara”) che vent’anni fa suonava romantica ma oggi “dovrebbe metterci in allarme”.

A inizio gennaio Anggun è tornata in Italia per il Concerto dell’Epifania. Ne abbiamo approfittato per ricontattarla, a sei anni dalla sua partecipazione al Concerto per la Terra 2012 organizzato da Earth Day Italia, e riprendere il discorso sull’impegno degli artisti per le grandi cause umanitarie. La cantante indonesiana è infatti impegnata da anni in cause per i diritti civili e per i popoli in via di sviluppo, oltre ad essere stata nominata più volte ambasciatrice e portavoce dell’Onu per progetti e campagne a favore dei paesi del sud del mondo.

Noi viene spesso nel nostro paese, anche se molti suoi fan italiani la vorrebbero ascoltare dal vivo.
In effetti è strano: da circa quattro o cinque anni vengo in Italia solo alla fine dell’anno, per un concerto di Natale o per l’epifania. Sono diventata una sorta di cantante speciale per il Papa (ride, ndr): ho cantato per Giovanni Paolo II, per Benedetto e anche per Francesco.

Che impressione ha avuto di papa Francesco?
Sicuramente il suo arrivo ha rivoluzionato il mondo cattolico. Viene con la sua semplicità, con le sue parole che malgrado tutto restano cattoliche, ma in maniera abbastanza progressista e rassicurante i non cattolici. Trovo inoltre notevole, per un uomo di chiesa, il proposito che l’importante non sia la religione ma il credere. Dopo Giovanni Paolo II è stato il papa che ho avuto voglia di incontrare.

Lei è stata sempre fiera delle sue origini, della cultura indonesiana e asiatica in generale. Che cosa può imparare l’occidente dall’oriente, e viceversa, sui piani filosofico, artistico e sociale?
Dagli orientali l’occidente può imparare la semplicità. Non abbiamo la stessa filosofia che c’è qui all’ovest: forse semplifichiamo di più le cose, diventiamo più fatalisti nei confronti della vita. Non troviamo sempre soluzioni o risposte a tutto, ma non è troppo grave. Noi dovremmo imparare ad essere più rigorosi nel fare alcune cose. Essere troppo semplici e fatalisti nel modo di interpretare la vita fa si che a volte siamo troppo permissivi. Ho comunque l’impressione che per ognuno di noi ci sia sempre molto da imparare, ma questo dipende anche dalla nostra vita, da ciò che vogliamo. A volte cerchiamo di applicare i modi di fare le cose che vengono da altri paesi: si cerca di farlo e non funziona, perché la mentalità non è adattabile.

Ad esempio, nella cura dell’ambiente: l’oriente può imparare dagli errori dell’occidente?
Si. Faccio parte di coloro che sostengono i popoli autoctoni. Sono i popoli che conoscono veramente i segreti e posseggono le chiavi della nostra Terra, ma purtroppo non vengono aiutati da nessuno. Sono abbastanza soli. Perché le industrie arrivano e la politica del denaro fa si che non li si possa difendere. Bisogna ascoltarli. Ho incontrato il capo Raoni (un noto e importante rappresentante del popolo Kayapò, indigeno dell’Amazzonia, ndr.) e ho fatto una narrazione dei popoli autoctoni del Costarica e dell’Indonesia per una ONG. È bello, è commovente ma triste: si ha conoscenza del problema, il mondo lo sa, ma malgrado ciò non si fa nulla. Questo è un crimine fatto alla luce del sole, perché si sa come combattere, eppure si fa il contrario. Non perdo la speranza, ma ci dicono che abbiamo superato il punto di non ritorno per poter arrestare il disastro ambientale, e dunque è già tardi: non si può tornare indietro. Malgrado tutto, però, non riusciamo a dire alla gente di non fare peggio: i governi non ci aiutano.

Vivendo in Francia, quali sono le preoccupazioni dei francesi per l’ambiente? E quali sono le preoccupazioni degli indonesiani, degli orientali?
Ho l’impressione che in Francia si cerchi di fare di più per proteggere il clima. Abbiamo una sindaca a Parigi (Anne Hildago, ndr.) che non ama gli automobilisti, quindi cerca di promuovere le biciclette, le auto elettriche e bandirà il diesel dalla circolazione. Quindi sono state fatte cose concrete e si continuerà. Lei cerca veramente di combattere ogni forma d’inquinamento. Mi rendo anche conto che mia figlia, a scuola, impara dei gesti come il riciclaggio, il risparmio energetico e a non inquinare. In Europa non si possono più utilizzare buste di plastica nei supermercati, quindi ci sono cose concrete, che adesso fanno parte dei nostri gesti quotidiani.
In Indonesia è il contrario. Questa è una cosa che trovo irritante: nei paesi dove la natura è molto presente, come in Indonesia, i popoli non sono disciplinati e i governi hanno molti altri problemi a cui pensare prima di riflettere su questioni ambientali. Ho l’impressione che parlare di salvare il nostro pianeta sia problema dei paesi ricchi, non di quelli poveri. L’Indonesia non è un paese povero ma è un paese complicato: ci sono tredicimila isole, l’arcipelago è enorme. È un paese del “sud”. Nei paesi del sud c’è molta più corruzione e c’è la mentalità della gente: ecco il lato fatalista, nel senso negativo del termine. Si sfrutta perché bisogna sfruttare ma non si fa nulla per rimpiazzare.
In Indonesia ci sono delle ONG e il Ministero dell’Ambiente e delle Foreste, con cui ho potuto parlare in passato, che lavorano alla riforestazione. Ci parlano sempre della deforestazione, ma c’è necessità di riforestazione. Io stessa sono andata in Indonesia per piantare delle mangrovie; perché dopo lo tsunami (del 2004, ndr) che in Indonesia ha fatto la maggior parte delle vittime, ho saputo che se ci fossero state spiagge con 100-200 m2 di mangrovie queste avrebbero aiutato a fermare l’ondata, e non ci sarebbero stati così tanti morti. Dove sono andata ho fatto delle campagne con delle ONG sulle mangrovie ma, malgrado la buona volontà di tutti, se non si è aiutati dal governo è molto complicato. L’industria dell’olio di palma diventa sempre più spaventosa: stiamo radendo le nostre foreste; foreste antiche quanto il mondo. Perciò ho prestato la voce per narrare dei popoli autoctoni: ad esempio del popolo dei Dayak della foresta del Borneo che ci allerta su molte delle cose che succedono, delle reazioni della natura: Reazioni che conosciamo bene: stanno perdendo delle terre. Prima ero abbastanza ottimista. Ora, dopo aver visto delle cose, non sono diventata pessimista ma realista.

Tra le sue canzoni ce ne sono alcune dedicate alla natura, alla bellezza degli oceani per esempio, ma la più esplicita è “Un jour sur Terre”, composta per un documentario naturalistico della BBC. Qual era il messaggio della canzone, e da dove ha tratto ispirazione per scriverla?
È molto difficile parlare di salvare il pianeta senza che le persone si distraggano. Appena si parla di cose serie le persone perdono interesse. Quindi bisogna parlarne in modo più ampio. Non amo mischiare la musica con le mie convinzioni. Ci sono cose che faccio personalmente, utilizzando la mia notorietà; ma con le canzoni cerco di farlo il meno possibile. Inoltre non so se il messaggio passi realmente: di tutte le canzoni che ho scritto fino ad oggi, lei mi ha parlato di quella canzone, ma non altri. Ognuno di noi si interessa a cose particolari: a lei interessa questo, ma non a molti altri. Ciò non vuol dire che mi fermo: continuerò, ma non con la musica, con il mio impegno.

Eppure, forse la più celebre delle sue canzoni, “Snow on the Sahara”, si è “avverata” qualche tempo fa: ha effettivamente nevicato nel Sahara. Che impressione le ha fatto?
C’è stato un momento di grande attenzione verso di me, soprattutto su twitter. Tutti, da Paris Match al New York Times hanno pensato a me. È stato gentile pensare a me, ma è comunque una catastrofe, e la gente non se n’è resa conto. Nonostante sia una magnifica canzone, quell’immagine, concepita per essere impossibile, ora è diventata una possibilità; per di più per due anni di seguito. Dovrebbe metterci in allarme.

In verità gli scienziati dicono che non è un fenomeno legato ai cambiamenti climatici ma al fatto che nel deserto ci siano grandi escursioni termiche tra la notte e il giorno. Ma è interessante notare come questa, che nel ’97 era un’immagine romantica, nel 2018 è diventata una catastrofe.
Infatti. Perché non ha senso, dal momento che abbiamo dei politici, dei presidenti, come Trump: una personalità catastrofica, che non crede a ciò che dicono gli scienziati e continua a scherzare dicendo “Dov’è il riscaldamento globale, visto che a New York fa tanto freddo?”. Non capisce quest’uomo? Si capisce che è un problema reale; che ci saranno sempre più ondate di calore, sempre più calde e che dureranno più a lungo. E siamo noi ad averlo provocato: è la natura che reagisce a noi. È abbastanza triste.

Vorrei ricordare un suo video del 2011 di una campagna della FAO per l’integrazione delle donne nell’economia agricola, contro la fame. Sono passati sette anni. Qual è il ruolo delle donne oggi? Ha la sensazione che le cose siano migliorate? E nel suo mondo della musica c’è lo stesso problema: le donne hanno meno potere o possibilità di esprimersi degli uomini?
Ho l’impressione che in questo momento si parli molto di noi, delle donne, ma siamo ancora in una fase di cambiamento della maniera di percepire le donne; ad esempio con questo movimento dei Golden Globe che arriva dalle attrici, dalle persone importanti. Questo è per l’aneddotica spicciola. Tengo a ricordare che in Indonesia, un paese mussulmano, abbiamo avuto una presidente donna (Megawati Sukarnoputri dal 2001 al 2004, ndr.). Non ci sono molti paesi in cui siano state elette donne al vertice. E poi soprattutto in un paese musulmano; il più grande paese musulmano del mondo. Quindi in Indonesia le cose bene. È un paese dove ci sono molte donne al potere: dottoresse, politiche, avvocatesse. Una politica che amo enormemente è la ministra degli affari marittimi e della pesca: Susi Pudjiastuti. È incredibile: ha fatto veramente molto per le donne e per l’ambiente, senza paura. Anche il ministro delle finanze è una donna (Sri Mulyani Indrawati, ndr.).
Per quanto riguarda la musica, penso che ci siano più cantanti donne che uomini. Quello che non capisco è come ci sia più competizione tra le cantanti mentre, per come siamo viste nel mondo, dovremmo essere più unite, invece che restare separate e in competizione tra noi. Per il contesto dell’agricoltura: non ho letto gli ultimi rapporti FAO, ma è stato provato che quando si mette una donna in posizione altolocata, in un qualunque contesto sociale o professionale, si può essere sicuri della riuscita del progetto. È quanto successo nel micro credito, di cui sono stata portavoce (per l’Onu, nell’Anno Internazionale del Microcredito 2005, ndr.): si è visto che le donne sono le migliori manager. Perché è ciò che facciamo naturalmente: abbiamo l’attitudine a prendere i problemi… sappiamo fare tutto, semplicemente.

Quali sono i suoi programmi per quest’anno, dal punto di vista artistico e dell’impegno sociale?
Nel 2018 passerò molto più tempo in Asia. Ho fatto uscire il mio nuovo album due mesi fa, quindi sono ancora impegnata nella promozione. Inoltre sono una giurata di “Asia’s got talent” di cui inizierà a metà anno la terza stagione. Continuo ad essere ambasciatrice dell’Onu ma allo stesso tempo ci sono molte cose che faccio personalmente: ad esempio a Parigi lavoro con un’associazione del mio arrondissement che si occupa di senza tetto. La riuscita di un progetto o di una missione ci da la voglia di fare la stessa cosa in un’altra missione. Quindi, visto che ho modo di dare il mio tempo agli altri, ho sempre più voglia di farlo, non solo in nome di un’istituzione tanto importante come l’Onu, ma anche direttamente, con le persone che sono coinvolte, senza portare le tv o parlarne con i giornalisti.

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