In occasione della Giornata Mondiale per la lotta alla Desertificazione e alla Siccità, le Nazioni Unite evidenziano dati e tendenze sul degrado del suolo naturale e fertile del pianeta: fonte di cibo per un genere umano sempre più numeroso, e linea di difesa contro il riscaldamento globale.
Il suolo fertile, quel sottile strato superficiale fatto di sostanze organiche e minerali che ci dà nutrimento e vita, è anche uno degli strumenti migliori che abbiamo per mitigare il clima. Ripristinando la naturalità di suoli “consumati”, sfruttati all’eccesso o coperti di strutture artificiali, si può riavviare il ciclo virtuoso naturale delle piante che catturano CO2 e restituiscono ossigeno, oltre ad assorbire il calore della radiazione solare. Per dare un’idea dell’importanza del suolo fertile basta ricordare che più di terzo di tutte le terre emerse è attualmente dedicato all’agricoltura o all’allevamento. Eppure stiamo sacrificando questa risorsa vitale a interessi economici, speculazioni edilizie, esigenze logistiche e logiche industriali. Il consumo di suolo avanza inesorabile come se non avessimo compreso che una volta reso sterile o coperto di cemento, nessun pezzo di terra del mondo potrà più darci cibo e acqua. Ogni giorno perdiamo 15 km2 per l’erosione dei suoli, 26 per la desertificazione, e 11 km2 di foreste. Recentemente l’ONU ha celebrato la Giornata Mondiale per la lotta alla Desertificazione e alla Siccità, mettendo in luce dati e tendenze che mostrano come stiamo decisamente andando contro ogni logica di conservazione della nostra stessa specie (oltre che dell’ambiente). Di seguito riassumiamo alcuni dei dati più significativi ed emblematici.
Stiamo inaridendo la fonte del nostro benessere. Uno studio dell’ONU del 2017 afferma che il 20% (un quinto) della superficie terrestre coperta di vegetazione mostra un costante declino di produttività, siano essi terreni agricoli o naturali. Una situazione, puntualizza il documento, che continua da almeno due decenni e che è dovuta allo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, in particolare dell’acqua. Un predecente studio sulla desertificazione precisa che a perdere fertilità e produttività sono il 20% delle coltivazioni, il 16% delle foreste, il 19% delle praterie e il 27% dei pascoli. L’impoverimento della terra non è senza conseguenze: più di 1,3 miliardi di persone vivono in aree dove l’agricoltura soffre di questo degrado; ma è stato calcolato che il benessere di più di 3,2 miliardi di persone (quasi la metà di noi) è minacciato dal degrado del suolo. Il risultato è che milioni di uomini e donne, soprattutto nelle aree rurali, sono costretti a lasciare le loro terre d’origine, dirigendosi prevalentemente verso le grandi aree urbane: entro il 2050 le stime prevedono da 50 a 700 milioni di migranti forzati dai cambiamenti climatici o dall’impoverimento dei loro territori. Sprechiamo risorse e riserviamo la maggior parte dei terreni a produrre nutrimento per altre specie. Il 70% dei campi agricoli sono destinati a pascolo o a produrre foraggio per gli allevamenti. Inoltre il 30% di questa produzione riservata al nutrimento degli animali si spreca e si perde nella filiera dal campo alla mangiatoia. Rendiamo sterili le terre migliori. I territori più fertili (quelli pianeggianti, bene esposti, vicini all’acqua e facili da raggiungere) sono proprio i primi ad essere sacrificati per far posto all’urbanizzazione. Un fenomeno che, dal dopoguerra in poi, abbiamo vissuto nella Pianura Padana e in altre aree agricole italiane intorno alle grandi città. Secondo le proiezioni statistiche, questa avanzata del consumo di suolo fertile continua a livello globale, e porterà alla perdita dell’80% dei campi attualmente coltivati in Africa ed Asia. Alimentiamo il riscaldamento globale bruciando il nostro cibo. Perdita di fertilità e degradazione del suolo sono causate anche dagli incendi che, com’è intuibile, sono concause del riscaldamento globale: secondo una stima dell’IPBES nel decennio 2000 – 2009 soltanto questo fenomeno ha rilasciato in atmosfera tra le 3,6 e le 4,4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Abbiamo modificato (in peggio) tre quarti del mondo, e presto saranno i 9/10. Il 75% delle terre emerse è stato classificato come “significativamente alterato”; soltanto il 25% di esse sono state risparmiate dall’impatto del genere umano; inoltre le previsioni avvertono che per il 2050 questa percentuale di natura residua scenderà al 10%. Alcuni ecosistemi sono più impattati di altri: lo stesso rapporto dell’IPBES afferma che nel 66% degli oceani (due terzi) si stanno accumulando gli effetti delle attività umane (inquinamento, impoverimento degli stock ittici, degrado dei fondali, alterazioni chimiche e della temperatura); e che abbiamo ormai perso l’85% delle aree umide naturali, come le paludi, custodi in passato di un grande capitale di biodiversità.
Come il pericolo, anche le soluzioni sono state già individuate. Alcune sono anche a “basso costo” è richiederebbero soltanto la volontà di affrontare il problema e il coordinamento a livello internazionale. Nel 2021 è iniziato il Decennio del Ripristino degli Ecosistemi sancito dall’ONU: un centinaio di nazioni si sono impegnate a rinaturalizzare almeno un miliardo di ettari entro il 2030; un’area grande quanto la Cina. Un quarto di queste superfici potrebbe tornare a produrre cibo e contribuire a risolvere il problema della scarsità di nutrimento che attualmente affligge ancora quasi 700 milioni di persone.