Il 25% della produzione alimentare mondiale potrebbe soccombere agli effetti del cambiamento climatico. Per compensare gli agricoltori dovranno adattare colture, stagionalità e tecnologie sul campo.
L’allerta arriva da un team di ricercatori statunitensi ed europei, che ha indagato come i probabili sviluppi del cambiamento climatico in atto sul nostro pianeta potranno influire sulla produzione mondiale di cibo. Argomento non trascurabile, visto che innegabilmente la popolazione umana è in costante crescita, così come la temperatura media globale.
Lo studio, pubblicato dal Journal of Environmental Economics and Management, è stato condotto da ricercatori della Boston University, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e della Fondazione CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici). La sintesi è che le previste ondate di calore dei prossimi decenni, effetto delle variazioni del clima della Terra conseguenza del riscaldamento globale (in uno scenario definito “spinto”), causeranno una diminuzione delle piogge nelle principali aree coltivate del pianeta. Questo si tradurrà in una diminuzione della produzione di cibo del 10% entro il 2050 e del 25% entro la fine del secolo. Lo studio si è concentrato sulle colture più importanti per l’alimentazione umana: soia, riso, grano e mais, che da sole rappresentano il 75% delle fonti di calorie per la popolazione mondiale. Per arrivare a queste conclusioni, gli scienziati hanno incrociato dati delle produzioni agricole del passato con previsioni di temperature e precipitazioni future; queste ultime frutto di ventuno simulazioni di modelli climatici globali.
Se i relatori del rapporto non hanno dubbi sul “destino” di gran parte delle coltivazioni, sono altrettanti certi che gli effetti previsti possono essere contrastati e ridotti, se gli agricoltori adatteranno le produzioni a queste previsioni. Nel breve periodo le possibilità di resilienza dell’agricoltura sono nel dosare diversamente fertilizzanti e acqua per l’irrigazione, in risposta alle variazioni climatiche contingenti. Ma queste sono misure di adattamento definite “limitate”. Più sostanziali sono le misure consigliate per il lungo periodo: cambiare le colture, spostare le date di semina e raccolto, e investire su tecnologie e macchinari agricoli all’avanguardia.
Com’è intuibile queste misure di lungo periodo implicano grandi investimenti e nuove politiche agricole a livello internazionale. Le conseguenze si avertirranno anche sulle coltivazioni locali e nazionali, radicate da secoli; per non parlare delle ripercussioni sul commercio e sui trasporti a livello globale. Nel documento pubblicato a seguito dello studio si pone anche, giustamente, il tema dei paesi in via di sviluppo che dovranno essere pronti (o supportati) al necessario cambio di rotta: “Ci siamo chiesti: – ha dichiarato Enrica De Cian, professoressa all’Università Ca’ Foscari Venezia e ricercatrice al CMCC – se si osservano difficoltà di adattamento negli Stati Uniti (dove gli agricoltori sono già alle prese con questi problemi, nda.) cosa possiamo aspettarci per il settore agricolo nei tropici, dove vive il 40% della popolazione mondiale e dove si prevede un aumento delle temperature estreme maggiore che nelle principali regioni coltivate degli Stati Uniti?”.