Dopo due settimane di negoziati e nonostante alcuni passi avanti, non è stato raggiunto un accordo finale. Decisiva la “distanza” tra nord e sud del mondo.
Le aspettative erano molto alte, soprattutto dopo i mezzi fallimenti della COP29 di Baku sui cambiamenti climatici e della COP16 di Cali sulla biodiversità, in cui si è fatta molta fatica a raggiungere obiettivi comuni e visioni univoche, senza arrivare a risultati concreti. Era ormai tutto nelle mani di quest’ultimo incontro, dopo anni di intense battaglie sulla diplomazia ambientale. E invece anche la COP16 della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione (UNCCD), svoltasi a Riyad dal 2 al 13 dicembre, si è conclusa con un nulla di fatto.
In apertura di COP i 196 Paesi partecipanti si erano impegnati a dare priorità al ripristino del suolo e alla resilienza alla siccità nelle politiche nazionali e nella cooperazione internazionale, identificandole come strategia essenziale per la sicurezza alimentare e l’adattamento climatico.
L’inizio dei negoziati in effetti era stato molto incoraggiante con lo stanziamento di 12 miliardi di dollari: 10 provenienti dall’Arab Coordination Group e 1 miliardo ciascuno dal Fondo Opec e dalla Banca Islamica di Sviluppo (IsDB). Un capitale importante per rafforzare la resilienza alla siccità. Questa decisione è stata seguita dalle parole del Presidente di IsBD e Capo dell’Arab Coordination Group, Muhammad Sulaiman Al Jasser: “Attraverso il ripristino del territorio, la lotta alla desertificazione e la lotta alla siccità, puntiamo a migliorare la resilienza delle comunità più vulnerabili del mondo.”
Altri risultati importanti sono stati la presentazione dell’Osservatorio Internazionale per la Resilienza alla Siccità (IDRO), una piattaforma basata sull’IA per migliorare le risposte globali al problema; e il rafforzamento del settore privato con Business4Land: arrivare a obiettivi misurabili in linea con la responsabilità ambientale e i criteri ESG, attraverso iniziative innovative volontarie e uso della tecnologia. Il settore privato al momento contribuisce soltanto al 6% dei finanziamenti globali per il ripristino del suolo, con un potenziale enorme ancora inutilizzato. Incoraggiante l’aver affrontato temi come: una più solida rappresentanza dei popoli indigeni, per garantire che la loro voce venga ascoltata; e una gestione più sostenibile dei pascoli, fondamentali per la sicurezza alimentare globale.
Un altro importante risultato da sottolineare è stata l’apertura della Green Zone, un padiglione dedicato all’inclusione della società civile sui temi principali, che ha riunito diversi stakeholder come aziende, ONG, comunità e gruppi giovanili.
Tuttavia l’incontro, tenutosi per la prima volta nella regione MENA, tra il Medio Oriente e il Nord Africa, si è protratto fino alla mattinata di sabato 14 dicembre (la conclusione era prevista per la serata di venerdì), ma ciò non è bastato per trovare un consenso sufficiente e raggiungere il principale obiettivo atteso: l’approvazione di un accordo internazionale vincolante, come lo era stato quello di Kyoto del 1997, per lottare in modo efficace contro la desertificazione e il degrado delle terre emerse del nostro Pianeta. Insomma, era necessario cambiare rotta.
Ma che cosa significa cambiare rotta? La risposta è molteplice: modificare i metodi di produzione agricola, evitare uno sfruttamento insensato delle risorse naturali, tutelare la vegetazione, utilizzare metodi di irrigazione appropriati, limitare l’uso dei pesticidi, ridurre la cementificazione e l’inquinamento, rinunciare in molti casi allo sfruttamento minerario, combattere seriamente la deforestazione.
Perché non siamo arrivati ad un accordo completo? Il motivo principale riguarda la spaccatura ancora troppo significativa tra i paesi industrializzati e quelli poveri e particolarmente colpiti dai cambiamenti climatici. È positivo che per la prima volta l’Africa abbia parlato con una voce unica, chiedendo un protocollo contro la siccità. Il continente è, d’altra parte, il più esposto alla desertificazione. Si è capito invece che i Paesi ricchi si stanno opponendo all’idea di un protocollo, troppo vincolante ai loro occhi, spingendo invece perché si approvi un semplice “quadro”; ma le delegazioni africane lo giudicano a loro volta inadeguato.
Che il tempo a disposizione sia ormai poco è confermato d’altra parte anche dai numeri: l’UNCCD ha stimato che 1,5 miliardi di ettari di terre dovrebbero essere bonificati di qui alla fine del decennio per invertire la tendenza alla desertificazione. Per farlo, serviranno almeno 2.600 miliardi di dollari.
Sono state rimarcate ulteriori criticità: Il 77% della superficie terrestre ha registrato condizioni di maggiore aridità negli ultimi 30 anni. Le terre aride si sono espanse di 4,3 milioni di km², un’area più grande dell’India. La siccità colpisce 1,8 miliardi di persone e costa più di 350 miliardi di dollari all’anno, danneggiando settori chiave come l’agricoltura e l’energia. Gli impegni attuali però non superano i 278 miliardi.
Uno dei problemi che hanno bloccato le discussioni a Riyad è stato anche quello finanziario. Il segretario esecutivo dell’UNCCD, Ibrahim Thiaw, ha spiegato come le ondate di siccità “alimentate dalla distruzione dell’ambiente provocata dall’umanità” colpiranno il 75% della popolazione mondiale entro la metà del prossimo secolo.
Inoltre, secondo il Global Land Outlook dell’UNCCD, senza un cambio di rotta profondo, il processo di degrado delle terre porterà 700 milioni di persone a dover abbandonare le loro case di qui al 2050, per mancanza di mezzi di sussistenza sufficienti, o di un adeguato accesso alle risorse idriche. Dopo anni di studi e obiettivi raggiunti dovremmo aver capito che quando si parla di spese dovute al clima sarebbe giusto sostituire il termine “spesa” con il termine “investimento”. L’elevato potenziale di rendimento a lungo termine è ormai una certezza, e studi usciti anche da questo convegno lo confermano: ripristinare oltre 1 miliardo di ettari di terreno potrebbe fruttare oltre 1.8 trilioni di dollari all’anno.
In chiusura il Ministro saudita dell’Ambiente e Presidente della COP16, Abdulrahman Alfadley, ha dichiarato che l’incontro rappresenta un punto di svolta nella consapevolezza globale sulla necessità di accelerare il ripristino delle terre e la resilienza alla siccità. Ma sarà davvero così? Insomma, è tutto rimandato alla COP17 del 2026 in Mongolia.