A 10 anni dal riconoscimento per le Dolomiti di “Patrimonio Naturale dell’Umanità”, le associazioni ambientaliste firmano un dossier che denuncia la perdita del patrimonio culturale delle montagne, trasformate dal marketing turistico. Mountain Wilderness: l’equilibrio è rotto: servono numero chiuso e meno comodità. Le Olimpiadi del 2026? “Non saranno sostenibili”.
Il Lago di Braies è un incantevole specchio d’acqua incastonato tra le montagne della Val Pusteria in Trentino Alto Adige. Da circa 10 anni quest’angolo delle Dolomiti, anche grazie alla serie televisiva “Un passo dal cielo” che qui ha girato molte scene panoramiche, è diventato meta di un turismo internazionale di massa mordi e fuggi. L’unica strada che lo raggiunge in estate è trafficata quanto un casello autostradale, tanto che lo scorso agosto le autorità locali hanno introdotto il divieto al transito ai veicoli privati.
Nel 2009 le Dolomiti sono diventate Patrimonio Naturale dell’Unesco. A dieci anni di distanza da questo riconoscimento un dossier dell’associazione Mountain Wilderness Italia, sottoscritto anche da WWF, Lipu, Legambiente, Italia Nostra ed altre* associazioni ambientaliste, lancia un allarme su questa invadente notorietà. È giusto continuare a costruire sempre più strade, funivie, alberghi, piste e parcheggi per raggiungere anche le montagne più alte e remote? Quanto è invasivo il turismo di massa per gli ambienti alpini?
“Ecosistema”, il programma di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana, lo ha chiesto a Franco Tessadri, presidente di Mountain Wilderness Italia.
Dieci anni fa le Dolomiti sono state dichiarate Patrimonio Naturale dell’Umanità. Alcuni dei problemi e delle criticità di cui parleremo vengono dal fatto che non siano state dichiarate anche patrimonio “culturale” dell’umanità. Che differenza c’è tra questi due aggettivi?
Il primo passo che bisognava fare era dare un senso naturalistico alla questione: proteggere la natura del posto era già di per sé molto importante. La questione culturale è legata agli aspetti della società: del vivere in montagna. La costruzione del riconoscimento è arrivata tramite le vie istituzionali: province e regioni. L’idea originale era che al “monumento naturale” sarebbe seguito anche quello “culturale”. Culturale vuol dire che la società e la vita di montagna dovrebbero mantenere un equilibrio. Questa era la cosa importante. In seguito sono arrivati i problemi
Quindi si può dire che questo riconoscimento alle Dolomiti riguarda più gli animali, le piante e il paesaggio, e meno le popolazioni e le comunità di montagna?
Il problema è nato da qui. Per determinati interessi, anche legittimi, come [l’indotto] dello sci, le infrastrutture e le strade, era molto più comodo proteggere [soltanto] la parte alta delle alpi: le pareti rocciose delle dolomiti, i prati alti; e lasciare più “libertà di sviluppo della montagna” da lì in poi: diciamo dai 2300-2100 metri di quota in giù. Non era quello che intendevamo noi (i proponenti, nda.).
Infatti nel vostro dossier si legge che “c’è ancora una concezione arcaica del turismo di massa”; cioè l’idea che la montagna venga valorizzata soltanto in “quantità”. Questo è il problema?
Si. La bellezza del paesaggio delle dolomiti in alta montagna balza all’occhio, e ovviamente fa il suo bell’effetto. Però secondo noi non dev’essere un richiamo puramente turistico, come invece rischia di diventare. Possiamo far salire le auto senza limiti alle quote elevate dei passi, andare a sciare, costruire funivie che ci portano in quota, e godere del paesaggio. Ovviamente queste cose possono andar bene, ma non si può prendere tutto l’ambito dolomitico e trasformarlo nella stessa maniera. Ci si deve limitare ad alcuni punti: valichi storici per il commercio. Questo ci sta. Però dopo la cosa deve avere un limite. Ad esempio la regina delle Dolomiti (la Marmolada, nda.), è già risalita alla sommità dei suoi 3342 metri da una funivia che parte da quota 1400 nel versante veneto; non si può pretendere, come adesso è nelle intenzioni, di fare un’altra funivia sul versante trentino. Riempire una montagna di seggiovie non è l’esempio migliore che si può dare.
Ci sono dei casi esemplari di ciò di cui stiamo parlando. Per esempio i laghi di Braies, un luogo che pochi di voi conoscevano fino a qualche anno fa e che sono diventati famosi grazie a una fiction. Che cosa succede lì?
Effettivamente quel programma televisivo (“Un passo dal cielo”, nda.) ha dato il là per portare lì la gente. Però si è superato il limite. Questo sistema di vedere le cose in televisione, pubblicizzarle, farle diventare marketing puro, ha creato i problemi. Problemi reali, come gestire l’enorme traffico arrivato così, abbastanza improvvisamente: problemi di mobilità e ovviamente di inquinamento. Hanno trasformato un luogo meraviglioso, che poteva essere visitato senza questi eccessi, in maniera moderata e anche, a questo punto, controllata. “Controllo” è solo una parola, anche se sembra quasi un impedimento, un divieto. Il controllo del territorio è importante per mantenere la sua identità. Ad un certo punto, quando si superano determinati limiti, ci vogliono i divieti. Nel caso del Lago di Braies il limite è stato ampiamente superato, e se la cosa dovesse continuare in questi termini ci potrebbero essere dei grossi problemi.
A grandi linee quello che voi proponete, e che aleggia in tutto il dossier, è il “numero chiuso”. Cioè limitare gli accessi alla montagna sia nel numero di persone, ma soprattutto impedirlo al turismo motorizzato, magari incentivando i trasporti di pubblici massa. Questo è il concetto?
Esattamente.
Quando nel lontano 1993 avete avviato l’iter per arrivare poi nel 2009 a far diventare le Dolomiti patrimonio Unesco, non vi aspettavate questo effetto collaterale?
Sì certamente. Sapevamo benissimo quali fossero i rischi. Probabilmente lo abbiamo involontariamente incrementato, ma anche se non avessimo scelto quella strada, il turismo in gran parte sarebbe lo stesso; perché le dolomiti erano conosciute a livello mondiale già prima che ci fosse il riconoscimento Unesco. Indubbiamente abbiamo corso un rischio e questa cosa (il riconoscimento Unesco, nda.) ha dato quel qualcosa in più che ha portato anche dei problemi. Infatti abbiamo immediatamente agito, anche insieme ad altre associazioni, chiedendo, più che divieti, controllo e regolamentazione del traffico. Perché a un certo punto bisogna porre dei rimedi quando questo sistema rovina il bene (il paesaggio, nda.) che si va a vedere. Indubbiamente abbiamo corso un rischio, ma pensavamo che la politica fosse matura per capirne il senso. Qui c’è stato il problema: eravamo fiduciosi che la politica locale avrebbe capito che non è una questione di marketing o di introiti, ma anche una questione culturale. Il rischio l’abbiamo corso, comunque pensiamo che si possa sempre porre rimedio, altrimenti diventerà un problema. Non dirò mai che le associazioni (SOS Dolomiten, Legambiente e Mountain Wilderness) che hanno avuto questa idea, possano sentirsi colpevoli di aver fatto qualcosa di diverso. Assolutamente no. Se ci sono colpe le scarico completamente alle amministrazioni politiche.
Un altro aspetto che mettete in evidenza nel dossier è “un progressivo aumento del lusso offerto dalle strutture e infrastrutture in quota”. Ad esempio scrivete che quelli che una volta erano rifugi e alberghi anche spartani, per alpinisti e appassionati, si stanno trasformando: hanno al loro interno le spa, dei grandi ristorante: insomma delle strutture più comode. Addirittura le seggiovie stanno diventando più comode: in pelle e con sedili imbottiti. Questo vuol dire che, secondo voi, la montagna va vissuta solo in maniera spartana? Quasi da alpinisti?
È il discorso del senso del limite. Io non discuto l’innovazione e tutte le cose nuove arrivate nel tempo. Però ogni cosa deve avere un senso: l’obiettivo di portare il benessere in montagna, come indubbiamente è stato fatto negli anni. Il problema è che poi c’è un tetto, un equilibrio. Adesso l’equilibrio si è rotto. Se porto in montagna un albergo con tutti i lussi della città, non faccio altro che un copia-incolla. Magari, a valle, ci può essere qualche centro un po’ migliore degli altri; però, per esempio, al Passo Sella è stato costruito un resort, fantastico dal punto di vista alberghiero, ma secondo noi eccessivo per la zona in cui si trova. Prima c’era uno storico rifugio che sicuramente andava ristrutturato. Lo si poteva ristrutturare mantenendone la specificità, cioè la sobrietà. Adesso entrando all’interno di questo posto, al di là del colore tipico ladino, ci trovi il supermercato e molte altre cose che, sinceramente, sembra di entrare in un centro commerciale cittadino. È questo che vogliamo? Non vogliamo mettere limiti ma diciamo non va bene. Pensiamo che arrivare (in quota, nda.) con troppa comodità per fare queste cose porta ad eccedere i limiti, e a noi non va bene. Quindi il divieto è inteso sempre al mantenimento di quella che è la montagna reale. L’Uomo ormai può fare di tutto: possiamo fare l’autostrada a 4000 metri, e funivie fin dove vogliamo; tecnicamente sono tutte cose fattibili. Però dobbiamo capire che dietro ci sono i costi ambientali e finanziari. Nel tempo hanno creato delle cose che vanno benissimo per alcune popolazioni, mentre altre, più sfortunate, perdono tutto. Come il discorso degli impianti sciistici: in una zona dove c’è denaro c’è sviluppo; la zona adiacente rimane povera perché il numero dell’utenza comunque è arrivato a un tetto. Il numero degli sciatori in Europa è di circa 15 milioni, in calo. È su questo numero di persone che occorre regolarsi; quindi redistribuirle in maniera equa sulle stazioni di media quota che già ci sono, anziché creare delle perle e poi lasciare che intorno tutto si svuoti o si abbandoni. È ciò che è successo in Veneto; in qualche caso anche in Trentino; un po’ meno in Alto Adige. Questi sono i pericoli.
Questo dossier è firmato praticamente da tutte le principali associazioni ambientaliste italiane: Legambiente, Lipu, Pro Natura, WWF, Italia Nostra e altre. Le comunità locali delle Dolomiti, che come tutte le popolazioni montane italiane è in diminuzione, quanto sono d’accordo con questa linea di condotta? Immagino che albergatori, ristoratori e agricoltori che vendono a km zero i loro prodotti, abbiano comunque dei vantaggi dal turismo di massa.
La realtà l’abbiamo davanti. Non è assolutamente [vero che] noi abbiamo stoppato lo sviluppo e fatto andare via [la gente], perché stiamo ancora vivendo una fase voluta prima: il turismo di massa ha creato questo. I problemi che ci sono oggi non li hanno creati gli ambientalisti. Sono dei problemi arrivati appunto dalla fruizione del turismo di massa in montagna. Allora, che cosa facciamo? Dobbiamo porci rimedio, che appunto è la questione del senso del limite. Noi vogliamo che adesso ci sia un’idea diversa. È molto difficile, perché siamo abituati all’idea del consumo, dell’immediato, della massa che porta i soldi; e dopo magari la montagna viene abbandonata per sei o sette mesi all’anno. Per noi non è un’idea vincente. Dobbiamo cercare di “destagionalizzare”: far sì che la montagna possa essere vissuta in maniera più “dolce” durante tutta la stagione primaverile e soprattutto autunnale; e non concentrare i flussi soltanto in estate, a Ferragosto o durante le feste natalizie, che di fatto è quello che sta succedendo. Purtroppo (lo dico un po’ provocatoriamente) è molto semplice dare la colpa a noi ambientalisti [sostenendo] che diciamo sempre di no. Perché non è assolutamente vero. Ci sono diversi documenti, proposte, mediazioni che abbiamo fatto, anche al ribasso, pur di mantenere una strada che dovrebbe diventare migliore, secondo il nostro modo di vedere. Questo lo stiamo facendo noi, lo stanno facendo Legambiente, il WWF e tutte le altre associazioni. Purtroppo il “come” è stato fatto il riconoscimento Unesco, non è stato capito dalle popolazioni montane. Le faccio un esempio, io che sono di Trento: nei fondovalle, ma anche negli alberghi delle località sciistiche, il turista ancora non è molto al corrente di che cosa sia questo “Dolomiti Unesco”. La Fondazione Dolomiti Unesco, che è stata creata per gestire questo bene, sta facendo di tutto, però è oppressa dall’altro intento, che è appunto quello dell’immagine immediata. Il concetto reale di “Dolomiti Unesco” per come lo intendevamo noi, ancora non è stato capito a fondo dai cittadini delle zone alpine. I quali non necessariamente devono essere i cittadini che vivono proprio in alta montagna: devono essere quelli del fondovalle, della Val d’Adige, della Val Pusteria, della Val Venosta, della Valsugana e di tutte le altre valli alpine di bassa quota. Devono capire che cosa c’è sopra di noi.
All’orizzonte ci sono le olimpiadi del 2026 divise fra Milano e Cortina. Ovviamente può essere un’opportunità, ma anche un danno. Che sensazioni avete?
Noi ovviamente mettiamo le mani avanti. Questa è stata definita l’olimpiade della sostenibilità, ma di fatto non è così. Perché un’olimpiade porterà a delle [nuove] infrastrutture, oltre [a quelle] già fatte: sono stati ampliati impianti e piste. Noi [vorremmo fosse] una questione di risistemare l’attuale [impiantistica] e cercare di fare delle olimpiadi veramente contenute; perché poi, alla fine, ci gira intorno qualche migliaio di persone e poi, finita l’olimpiade… Sono cose già vissute, che abbiamo visto alle olimpiadi di Torino 2006. Non sono solo danni: ci sono ancora alcune cose che hanno funzionato; ma ci sono cose abbandonate, a cominciare da Torino, per andare su nelle valli dove si sono svolte le olimpiadi. È veramente una cosa orrenda: costruire qualcosa e dopo abbandonarla. Questo può essere il pericolo per Cortina 2026. Nel dossier abbiamo già indicato alcune cose che possono essere sufficienti, e a nostro avviso non c’è bisogno di fare altro. Anche perché ci sono cose un po’ assurde: stanno parlando di nuove ferrovie, come Calalzo (comune del Cadore, in Veneto, di cui si parla per un collegamento diretto con Milano, nda.), da ripristinare per le olimpiadi. Ovviamente in sei anni non si può ricreare una rete ferroviaria da quella abbandonata. È un’idea che noi abbiamo anche appoggiato, anni fa: ripristinare alcune ferrovie venete in parte dismesse o molto sottoutilizzate. Però ci vuole molto tempo. Adesso sinceramente è molto più rapido creare autostrade e collegamenti vari per il traffico su gomma. Se ci fosse la reale intenzione di fare la ferrovia sappiamo benissimo che ci vorrebbero molti anni. Molti più dei sei che ci sono da qui alle olimpiadi.
* Firmatari del dossier: Amici della Terra, Italia Nostra, Legambiente, Lipu, Federazione Pro Natura, WWF, Federazione Protezionisti sudtirolesi, Dachverband, Lia per Natura y Usanzes, Peraltrestrade (Cadore), Ecoistituto del Veneto Alex Langer.