Intervista a Sabrina Presto, ricercatrice del CNR, autrice di “Scienziate visionarie”: un racconto del contributo di dieci grandi scienziate al progresso umano.
Dalla loro istituzione, nel 1905, sono stati assegnati circa mille premi Nobel nelle varie discipline artistiche, letterarie e scientifiche. In totale solo 67 hanno premiato delle donne (tra l’altro 66, perché Marie Curie ne ha meritati due). Una percentuale decisamente bassa, emblematica delle difficoltà che le donne hanno incontrato nell’affermarsi nei rispettivi ambiti di lavoro nel XX Secolo; soprattutto nelle scienze. Un libro pubblicato di recente, racconta l’apporto del genere femminile al progresso scientifico e sociale del Novecento, attraverso dieci biografie di scienziate che, in modi e tempi diversi, hanno rivoluzionato i loro campi di studio, denunciato pratiche contro l’ambiente e la salute, aperto nuove vie per la ricerca. “Scienziate Visionarie” (Edizioni Dedalo) è opera di Cristina Mangia e Sabrina Presto, entrambe ricercatrici del CNR. Pagina dopo pagina emergono storie di dedizione e impegno, coraggio e determinazione che portano queste studiose a rompere le barriere del pregiudizio, dell’elitarismo, dell’interesse e soprattutto del maschilismo neanche troppo nascosto del mondo scientifico.
“Che abbiano aperto la via all’informatica o alla biologia molecolare, che abbiano scoperto la materia oscura o elaborato modelli economici sperimentali, l’apporto delle donne alla scienza è stato per lo più cancellato, minimizzato, o attribuito ai colleghi uomini – scrive nella prefazione di Sara Sesti, docente di matematica e ricercatrice – I loro nomi sono stati dimenticati, esclusi dalla storia. Una censura che ha perpetuato e che conferma ancora oggi l’idea errata di una ricerca dal volto maschile, una visione incompleta della partecipazione del genere umano all’impresa scientifica.”
Abbiamo lasciato alle spalle questi pregiudizi? Le donne del XXI secolo hanno raggiunto la parità di opportunità, trattamento, riconoscimento, dei colleghi uomini? Lo abbiamo chiesto a una delle due autrici: Sabrina Presto, ricercatrice presso l’Istituto di Chimica della Materia Condensata e di Tecnologia per l’Energia di Genova; e membro del direttivo di “Donne e scienza”, associazione che promuove la partecipazione femminile alla ricerca scientifica.
Il titolo del libro “Scienziate visionarie” potrebbe sembrare alludere a donne utopiste, che magari non avessero il contatto con le realtà dei loro giorni. Dalla lettura del libro e dalle biografie di queste dieci donne, emerge esattamente il contrario: scienziate profondamente immerse nel loro presente. Delle visionarie nel senso buono del termine: prevedevano quelli che sarebbero stati i problemi scientifici del futuro. Vede anche lei questa comunanza fra loro? È stato un fattore di scelta delle biografie?
Ovviamente abbiamo pensato alla possibilità di questo fraintendimento. In effetti accostare la parola “visione” alla parola “scienza” sembra assurdo, quasi una parolaccia. Ma lo abbiamo fatto volutamente. Visione è la parola chiave che lega tutte le scienziate. Tutte hanno avuto un’idea molto forte, molto diversa da quella degli altri. Visionarie nel senso buono, appunto: che riescono a vedere qualcosa che gli altri non vedono.
Soprattutto abbiamo voluto questa parola perché ci è stata suggerita da Donella Meadows che in qualche modo è la madrina di tutto il progetto “Scienziate Visionarie”. Una donna che, in maniera decisa e precisa, ha sempre sostenuto che agli scienziati non bastano dati e numeri per risolvere i problemi: ci vuole proprio la visione; cioè un’idea forte della direzione verso cui si vuole andare. Durante un convegno, davanti a colleghi e colleghe – ovviamente meno numerose a quei tempi – tutte persone molto razionali, chiese di chiudere gli occhi e immaginare il futuro verso cui tendere. Sosteneva che gli scienziati non devono pensare al luogo da cui scappare o al problema da risolvere, ma alla direzione verso cui andare. Per noi, visione e scienza sono due parole da accorpare.
Donella Meadows è la prima biografia del libro; anche perché rappresenta quella che, al momento, è la madre di tutte le previsioni scientifiche dei nostri tempi. Prese parte infatti a quello studio che nel 1972 previde i problemi che sarebbero nati da uno sviluppo incontrollato della nostra società, e che venne pubblicato dal Club di Roma nel famoso libro “I limiti allo sviluppo”. Dello studio, tra l’altro, lei fu prima firmataria. Come fu possibile che in quegli anni, in cui molto più di oggi le donne avevano scarso accesso alle posizioni apicali, lei facesse parte di questa élite di scienziati?
In quegli anni lavorava al Massachusetts Institute of Technology, nel System Dynamics Group del professor Forrester. Era responsabile di studi che utilizzavano un approccio sistemico. Cioè facevano simulazioni in cui venivano presi in considerazione diversi parametri: la crescita della popolazione; quella industriale; la richiesta sempre maggiore di energia; l’inquinamento; la povertà; la fame. Attraverso queste simulazioni il gruppo del professor Forrester riusciva a fare delle previsioni su ciò che sarebbe accaduto. Il Club di Roma chiese di lavorare proprio su questo. Donella ha intravisto la potenza di questa simulazione, la quale prevedeva che nel brevissimo arco di tempo di un secolo, con la crescita della popolazione, la richiesta di energia e lo sfruttamento delle risorse, il pianeta sarebbe andato incontro al collasso.

Perciò lei intravide in maniera veramente visionaria che cosa sarebbe accaduto, e reputò fondamentale scrivere quel libro. Da quel momento è diventata l’artefice del cambiamento. Cambiamento fino a un certo punto, purtroppo: perché ancora oggi abbiamo a che fare con gli stessi problemi. Però quel libro scosse il panorama mondiale in maniera incredibile. Negli Stati Uniti aprì una contesa tra repubblicani e democratici. Da una parte il presidente Carter cominciò a parlare di fonti rinnovabili e di limiti allo sviluppo che la Scienza è d’accordo nell’affermare esistano, e quindi non si può crescere in maniera indefinita. Dall’altra parte ovviamente c’erano i repubblicani: Reagan diceva che solo nel consumare e nel crescere c’è la felicità delle persone. Il libro venne apprezzato da alcuni e criticato da altri; ma alla prima conferenza sull’ambiente dell’ONU, a Stoccolma, la preoccupazione per il pianeta venne condivisa da tutti i partecipanti. Donella riuscì insomma a catturare l’attenzione sulle limitate risorse del pianeta, e a spronare tutti per affrontare una situazione che stava per diventare problematica. In effetti oggi assistiamo proprio a questo: se l’avessimo ascoltata un po’ prima – era il 1972 – non saremmo ancora a questo punto.
Le scienziate raccontate nel libro non emergono soltanto in quanto donne: non hanno portato un contributo “normale” alla Scienza. Fra loro ci sono pioniere di alcuni campi: le malattie sul lavoro; le conseguenze dei primi esperimenti con le armi nucleari; l’igiene nelle scuole e nelle città. A queste donne – che purtroppo sono sconosciute al grande pubblico – l’umanità deve degli avanzamenti epocali della civiltà che, nella storia della Scienza, vengono quasi totalmente identificati in figure maschili. Può citare alcune di queste scienziate?
Lei ha citato ad esempio gli esperimenti con la bomba all’idrogeno. Katsuko Saruhashi è stata una grande scienziata, poco nota anche perché giapponese. Ha vissuto e lavorato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale; quindi in un momento in cui il Giappone veniva poco considerato dalle grandi potenze. Saruhashi, per prima, ha misurato gli aspetti devastanti dei test con la bomba all’idrogeno; ha dimostrato quanto fossero nocivi per l’ambiente e le persone. Si recò anche negli Stati Uniti per mostrare i suoi studi e confrontarsi con chi ovviamente rifiutava di accettare questi dati. A lei perciò dobbiamo il fatto che, successivamente, questi esperimenti siano terminati.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il nucleare era veramente in auge. Si facevano radiografie per qualunque cosa: tra le persone ricche venivano usate ad esempio nei negozi di calzature per vedere la posizione del piede nella scarpa, e addirittura venivano eseguite sulle donne incinte per osservare la posizione del feto nel grembo. A fronte di casi di leucemia infantile che aumentavano misteriosamente, Alice Stewart riuscì a dimostrare che in realtà quella tecnica era pericolosa, o comunque in alcuni casi bisognava ridiscutere la soglia di pericolosità delle radiazioni. Perciò grazie a lei abbiamo smesso di fare quelle cose.
Forse più famosa è Rachel Carson, che si occupò negli anni ’60 di raccogliere dati sull’esposizione ai pesticidi, in particolare il DDT. Al suo grandissimo lavoro dobbiamo il divieto all’uso del DDT e la regolamentazione dei pesticidi negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Grazie ad Alice Hamilton, la tossicologia industriale ha avuto negli Stati Uniti uno sviluppo incredibile: lei si recava nelle fabbriche, viveva con gli operai, respirava la stessa aria. Da lì nacque la regolamentazione sull’uso delle sostanze chimiche. Per non parlare delle sue affermazioni sulla produzione delle armi: è incredibile – diceva – che persone innocenti siano trattate come cavie da laboratorio, morendo per produrre materiali che poi serviranno a uccidere altre persone.
C’è poi Lynn Margulis che ha rivisto completamente l’idea dell’evoluzione, parlando non solo di “competizione” ma anche di “cooperazione” e “simbiosi” tra organismi diversi: come tra noi esseri umani e tutti i microorganismi (interni al corpo umano, ndr.) che ci aiutano nelle nostre attività quotidiane.
Anche Suzanne Simard ha parlato di questa cooperazione… tra le piante: prima si pensava – e tuttora siamo portati a pensare – alla competizione tra alberi vicini, che si sottraggono luce e cibo. Simard ha dimostrato che in realtà nel sottosuolo c’è una rete di cooperazione, dialogo e scambio tra gli alberi; e addirittura ce n’è uno che fa da “albero madre” e fornisce nutrimento agli altri.
Wangari Maathai, scienziata e attivista premiata col Nobel, con il gesto semplicissimo di piantare alberi ha innescato una rivoluzione verde, e ha affrontato il problema della deforestazione. Questione a cui ha associato anche la lotta alla politica corrotta del suo paese. Soprattutto ha promosso l’indipendenza delle donne, che hanno cominciato a pensare in maniera diversa a se stesse, e a cambiare qualcosa in un’Africa sfruttata, distrutta, deforestata.
Beverly Paigen ci ha insegnato che la Scienza deve essere partecipata. Questo è un aspetto fondamentale nel nostro libro. Quando si fanno ricerche sui territori, è necessario ascoltare anche la voce delle persone che in quei territori vivono; perché ognuno contribuisce con la sua parte di conoscenza. Lo studioso sicuramente ha una particolare competenza; ma ascoltare l’esperienza, il sapere di chi vive il territorio a volte permette di raggiungere obiettivi specifici. Nel libro raccontiamo dei suoi studi su una discarica vicina alle cascate del Niagara, e di quanto fosse pericolosa per la popolazione, a seconda della distanza da essa delle loro abitazioni e attività.
L’idea che queste scienziate hanno portato avanti è di una Scienza aperta, che non abbia in sé delle conoscenze indiscutibili, ma a cui piaccia mettersi in discussione e ascoltare le voci di tanti.
Il libro parla anche del ruolo degli scienziati. Beverly Paigen avvertiva la loro responsabilità di entrare nella vita delle persone per difenderne la salute con le proprie competenze: nel suo caso si trattava di un territorio inquinato da una discarica di agenti chimici. Come si evince dal libro, molti dei suoi colleghi all’epoca facevano più che altro attività di laboratorio; e spesso avevano una mentalità elitaria per cui lo scienziato dovesse restare al di sopra delle parti, senza essere coinvolto nella politica e nella quotidianità. Al contrario Paigen e altre donne che abbiamo citato sono scese veramente “in campo”.
Lei ha parlato di una comunità scientifica che “in passato” si sentiva elitaria e superiore. In realtà le assicuro che anche attualmente tantissimi studiosi si sentono così: hanno un atteggiamento poco collaborativo nell’aprirsi alla comunità. Pensano che la Scienza competa agli scienziati, e che gli altri debbano accettarne le scelte. È un atteggiamento che non ci piace in assoluto. L’abbiamo visto nel periodo del Covid: imporre decisioni dall’alto non è mai positivo. Perciò prima di tutto va sconfitto lo stereotipo che la Scienza sia qualcosa di esatto e intoccabile; al contrario: ha i suoi conflitti; si basa sul dialogo, sugli errori; è un continuo aggiornarsi e rivalutarsi.
L’altro stereotipo è che la Scienza sia qualcosa di razionale e astratto; che contino solo dati e numeri. Uno stereotipo che non ha motivo di esistere. La Scienza è fatta da persone che mettono tutte se stesse nell’impresa della ricerca. Perciò, se i protocolli e le misurazioni sono ovviamente neutrali, non possono esserlo le domande che la Scienza si pone: dipendono innanzitutto da finanziamenti, dalla politica, dalla società, dall’etica, dalla parte del mondo in cui ci troviamo. L’unica possibilità per avere una Scienza utile a tutti è smettere di pensarla come qualcosa di neutrale, ma fatta invece di tante voci. Più visioni allargate ci sono e più potrà essere utile a tante persone. Il classico esempio è la medicina di genere: finora si credeva che la medicina non avesse genere; che un apparecchio per misurare un attacco cardiaco fosse uguale per tutti. Invece si è visto che spesso uomini e donne sviluppano sintomi diversi. Perciò la medicina di genere ci insegna che la cosa migliore è differenziare le procedure in base alle persone.
L’ultimo stereotipo è che ci sia qualche motivazione innata per cui gli uomini nascono con una propensione per la Scienza e le donne no: perché sono emotive, non “portate”. È uno stereotipo avallato dalla società, dalla scuola, spesso dalla famiglia. Di conseguenza ci ritroviamo con dei numeri drammatici di iscrizioni femminili alle facoltà di ingegneria, informatica o fisica: semplicemente perché le ragazze vengono fin dall’inizio allontanate da questo percorso. Un esempio è la pubblicità dei giochi scientifici basati sulla chimica: spesso se riguarda il profumo o il rossetto c’è la ragazzina, se riguarda altre sostanze c’è il ragazzino.
Essendo donne, durante la carriera le dieci studiose raccontate nel libro sono state ostacolate da vari fattori nel far accettare le loro teorie, nonostante l’evidenza dei dati. Allo stesso tempo, a favore di molte di loro ci sono state campagne popolari o grandi esponenti politici – ad esempio John Kennedy che parteggiò per Rachel Carson – in opposizione a una comunità scientifica ancora retrograda e arroccata, o contro grandi potentati che avevano tutto l’interesse a bloccare questi studi.
La vicenda di Rachel Carson è un classico esempio. Denunciò la pericolosità del DDT e ovviamente gli industriali che producevano questi agenti chimici videro in lei una nemica da combattere. Perciò finanziarono qualche scienziato e iniziarono una vera battaglia contro di lei. Devo dire che la maggior parte degli studiosi erano d’accordo con Carson; nonostante ciò la battaglia finì addirittura davanti a una commissione istituita dal governo statunitense in cui Carson dovette difendere i suoi dati. Ci sono poi diversi casi di persone che si sono viste violare la posta; a cui sono stati chiusi gli uffici e sono stati tagliati i fondi.
D’altra parte ci sono stati tanti esempi di persone illuminate. Queste donne molto spesso sono state affiancate e supportate da altre donne, semplicemente per il fatto di condividere le stesse discriminazioni e problematiche. Ci sono stati anche uomini illuminati: nel caso di Katsuko, il suo mentore la formò dicendole che gli scienziati non devono essere soltanto degli ingegneri, ma anche dei filosofi. Questo fece in modo che lei vedesse la Scienza in maniera diversa. In generale queste donne creano delle grandi reti. Non partono dai centri di potere, ma dai margini; quindi hanno una prospettiva privilegiata: non sono invischiate nel potere, e devono quindi creare relazioni, cooperare con altri gruppi, perché altrimenti la loro voce non può essere ascoltata.
Potremmo pensare di vivere in un’epoca che ha superato questi pregiudizi, e che le donne abbiano tutte le possibilità di accedere a queste professioni. Ci sono oggi degli ostacoli che impediscono o rendono più difficile alle donne emergere nelle discipline scientifiche?
Il pregiudizio continua anche dopo l’iscrizione alla facoltà scientifica. Anche chi riesce ad ottenere risultati continua ad avere minore credibilità. Molto spesso non veniamo introdotte nei “club per uomini”: nel senso che finora c’è stato un certo modello di distribuzione del potere in cui è difficile entrare a far parte… e in alcuni casi magari neanche non lo vogliamo. Non bisogna poi trascurare il carico di cura che spesso devono sobbarcarsi le donne, il quale, nonostante siamo nel 2025, è ancora tutto su di loro: che siano figli o genitori, le donne si ritrovano comunque a gestire attività familiari che occupano mente, tempo e si traducono in oggettive difficoltà sul lavoro. Molto spesso le donne vengono destinate più ad attività “di supporto” alla ricerca, perché sono già abituate in casa ad organizzare e ad essere molto efficienti. È un circolo vizioso che penalizza il curriculum: si pubblica meno come primo nome; si prendono meno finanziamenti. Quindi si hanno meno possibilità di cambiare le cose che alla fine restano come sono: con percentuali maschili più alte. Infine – il nostro libro ne parla apertamente – c’è un discorso di modello: ci sono alcuni ideali e principi che non tutte siamo disposte ad accettare e condividere.