Antonello Pasini, fisico del clima del CNR, commenta i recenti fenomeni climatici e naturali a Tonga e in Madagascar, e ipotizza le conseguenze a lungo temine del riscaldamento del Mediterraneo e dei cambiamenti climatici in atto.
Il 15 gennaio il vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, nell’arcipelago di Tonga ha eruttato in maniera esplosiva, causando tre vittime e una situazione d’emergenza nel paese. Il boato è stato udito dalla Nuova Zelanda all’Alaska. L’onda d’urto della massa d’aria è arrivata fino ai cieli dell’Europa occidentale; e l’onda di tsunami, per fortuna di dimensioni relativamente ridotte, è arrivata fino alle coste americane. La recente attività eruttiva di questo vulcano è iniziata a dicembre e non si è ancora fermata. Purtroppo gli abitanti di Tonga stanno facendo i conti con le conseguenze peggiori: le ondate anomale hanno reso difficili i collegamenti, le comunicazioni, le forniture di cibo, acqua, medicinali e l’arrivo mezzi di soccorso; le ceneri ricadute a terra danneggiano i macchinari, le coltivazioni e gli allevamenti e, come avvertono le autorità locali, potranno causare alle persone difficoltà respiratorie, danni agli occhi e alla pelle. Per quanto riguarda le emissioni in atmosfera e i possibili effetti sul clima globale, gli scienziati aspettano dati per pronunciarsi, anche perché che il fenomeno è ancora in corso.
Quello che è certo è invece che gli oceani del pianeta si stanno scaldando: l’aumento delle temperature delle acque è iniziato negli anni ’90 e continua tutt’ora. I dati pubblicati di recente da una rivista scientifica specializzata, Advances in Atmospheric Sciences, dimostrano che il 2021 è stato l’anno in cui si è registrato il maggior accumulo di calore negli oceani: un record storico, da quando si effettuano misurazioni scientifiche. Una delle conseguenze di questo fenomeno è l’innalzamento del livello degli oceani; un’altra è l’aumento degli eventi meteorologici estremi (tempeste, ondate di calore, cicloni) causati dagli scambi termici anomali tra i mari e le masse d’aria che li sovrastano. I mari e oceani della Terra si riscaldano in misura differente a seconda di fattori come la latitudine, la profondità, la salinità e le correnti; ma il mare con il maggior tasso di riscaldamento è il Mediterraneo. L’aumento degli ultimi decenni è poco più di mezzo grado, registrato alle medie profondità; ma tanto basta per dare il via a delle serie conseguenze.
Un paese che paga a caro prezzo la sua posizione geografica è il Madagascar. L’isola, grande quasi due volte l’Italia, è il paese africano più esposto ai cicloni dell’Oceano Indiano. Negli ultimi tre anni la popolazione ha dovuto affrontare le alluvioni nel nord dell’isola, una siccità prolungata di due anni nel sud e la pandemia del Covid19 che ha paralizzato la catena di distribuzione della già scarsa produzione agricola. Come se non bastasse il Madagascar è uno dei paesi africani più afflitti dalle periodiche invasioni di locuste. L’insicurezza alimentare è la minaccia maggiore per questa nazione che per il 95% vive di agricoltura. Secondo la FAO il 42% dei 27 milioni di abitanti non ha la certezza di procurarsi quotidianamente il cibo necessario. La situazione è peggiorata da diverse malattie che colpiscono piante, animali e persone: una di queste in particolare, la “Febbre della Rift Valley” è una zoonosi, cioè un virus che passa dagli animali agli uomini per il tramite delle zanzare.
Per inquadrare queste notizie scientifiche e “di cronaca” nel più ampio scenario del cambiamento climatico abbiamo interpellato Antonello Pasini, fisico del clima del CNR e autore, tra gli altri, del libro “L’equazione dei disastri – Cambiamenti Climatici su territori fragili” (Codice Editore).
Quali possono essere le conseguenze sul clima dell’eruzione del vulcano di Tonga? Nell’immediato si è parlato molto dell’onda anomala ma quali cambiamenti potrebbero causare le polveri che sono state immesse in atmosfera?
Sicuramente dovremo capire se l’eruzione continuerà a più riprese; perché, le polveri, soprattutto di solfati, che vengono emesse in atmosfera da questi vulcani possono creare dei cambiamenti climatici. È successo in passato col Pinatubo (eruzione nelle Filippine nel 1991, nda.) con il Krakatoa (Indonesia 1883, nda.) con altri vulcani ed altre eruzioni molto forti: queste polveri si posizionarono nella stratosfera, cioè tra i 20 e i 30km di altezza, e fecero da schermo alla luce solare. Meno luce solare arrivava a terra, meno la terra e l’atmosfera sovrastante si riscaldavano. Infatti dopo l’eruzione del Pinatubo per uno o due anni abbiamo registrato un abbassamento addirittura fino a due decimi di grado della temperatura media globale.
Che differenza c’è tra queste emissioni di gas e di particolato con quelle antropiche? Stiamo facendo grandi sforzi per portare tutti i paesi del mondo ad abbassare le emissioni, ma se poi è la Natura a immettere gas in atmosfera non è tutto tempo sprecato?
No, perché queste eruzioni avvengono “a spot”, in momenti singoli, anche se magari perdurano per uno o due mesi; ma possono modificare qualcosa per un anno o due, non di più. Purtroppo invece, le emissioni antropiche sono continue e durature. Stanno continuando a crescere nonostante tutti questi sforzi, e quindi sono più duraturi anche gli effetti: cioè il riscaldamento globale. Quindi, se in seguito a queste eruzioni vulcaniche l’aumento di temperatura media globale si ferma o decresce anche un po’ per un paio d’anni, poi però, finiti questi spot, ricomincia a salire a causa degli impatti antropici.
In un suo scritto recente lei ha definito la carestia che sta affliggendo in questi mesi il Madagascar “la prima direttamente conseguente del cambiamento climatico”. Che cosa significa?
Significa che in Madagascar stiamo vedendo un cambiamento epocale. Le stagioni delle piogge negli ultimi tre anni sono state quasi inesistenti. C’è stata un’enorme ondata di calore e di siccità: una mancanza di precipitazioni che sarebbe stata assolutamente improbabile in epoca pre riscaldamento globale. Adesso invece purtroppo è probabile, ed infatti è avvenuta. Questo ha colpito direttamente l’agricoltura e gli agricoltori del Madagascar hanno perso quasi completamente i loro raccolti. Veramente una carestia enorme: per esempio non si riesce più a coltivare le patate, e queste persone devono mangiare le foglie di cactus, che solitamente venivano date gli animali, cibarsi di locuste. Veramente, forse uno dei primissimi effetti diretti del cambiamento climatico su una carestia di questo tipo.
Sembra una delle prove che quella famosa dead line che non possiamo oltrepassare si stia avvicinando pericolosamente. Insomma, il cambiamento climatico è già qui.
Si, assolutamente. Al di là dei disastri che colpiscono anche i paesi occidentali, lo vediamo soprattutto nei paesi poveri e in via di sviluppo che, pur essendo i meno responsabili del riscaldamento globale, perché sostanzialmente non emettono CO2 e altri gas serra, sono quelli colpiti dagli impatti più devastanti. In questo c’è una questione di diseguaglianza internazionale.
Parliamo di latitudini più vicine: del Mediterraneo, e di come sta cambiando il clima del nostro mare. Che cosa dicono i nuovi studi su fenomeni come i cicloni, che da qualche anno si manifestano anche nel Mare Nostrum?
Alcuni studi recenti – uno dei quali è di Marco Reale, un mio vecchio studente ora all’OGS (Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale) di Trieste – affermano che il numero dei cicloni probabilmente potrebbe diminuire, perché l’invasione del Mediterraneo da parte di anticicloni africani potrebbe tenerli lontani. Ma quando arriveranno, gli anticicloni avranno reso il mare così caldo da renderli più violenti. Allora, soprattutto le nostre coste saranno colpite da mareggiate più grandi, le precipitazioni potranno essere più violente con alluvioni lampo e forti grandinate. Tutti questi fenomeni impatteranno su un territorio vulnerabile come quello italiano, estremamente franoso in campagna, con città antropizzate all’eccesso talvolta con abusi: ecco come si creano poi quei disastri che purtroppo siamo ormai abituati a vedere.
Lei ha usato il condizionale. Ci dobbiamo preparare comunque ad essere resilienti o abbiamo ancora modo di intervenire per evitare queste conseguenze?
Secondo me la parola d’ordine è una: gestire l’inevitabile ma evitare l’ingestibile. Gestire l’inevitabile, perché ormai questi danni climatici li abbiamo e ce li terremo come li conosciamo adesso. Non potremo mai tornare indietro con la temperatura [media globale] ma soltanto stabilizzarla. Però non dobbiamo arrivare a temperature molto più alte, altrimenti non saremo più in grado di adattarci. Quindi dobbiamo evitare l’ingestibile con la mitigazione: cioè limitando le emissioni di gas serra, la deforestazione, un uso agricolo non sostenibile e così via. Se facciamo entrambe le cose probabilmente possiamo avere un futuro a cui guardare con ottimismo.