Alte emissioni inquinanti, mancanza di diritti dei lavoratori, riciclo inadeguato dei rifiuti: le ombre del mercato fast fashion.
“Il carattere distintivo della moda risiede nella sua transitorietà: essa esiste sempre come un momento e un fenomeno del presente, destinato a essere superato.” – Georg Simmel, “La moda” (1895)
Quello della Fast Fashion è un tema che negli ultimi anni ha acquisito importanza nel dibattito pubblico, soprattutto riguardo gli impatti che sta avendo in molti ambiti del nostro vivere quotidiano.
Ma che cos’è la Fast Fashion? Per “moda veloce” si intende un modello rapido di produzione e consumo di capi di abbigliamento, creati e venduti a basso costo rispettando le tendenze in voga nel periodo. La finalità è quella di rispondere velocemente a una domanda costante e in continuo mutamento.
La caratteristica principale del modello Fast Fashion è la rapidità con cui le aziende progettano, producono e infine spediscono i capi di abbigliamento nei loro negozi o propongono sui loro canali e-commerce. Questo iter viene messo in pratica attraverso ridotti costi di produzione grazie all’utilizzo di materiali economici, bassi costi di manodopera e una produzione su larga scala. Viene incentivato così un consumo massiccio, dando vita a decine di collezioni anche in un solo anno di attività.
L’impatto culturale che queste dinamiche di mercato stanno avendo oggi è molto importante. Il consumo dei vestiti negli ultimi anni è sempre più eccessivo e meno legato alla qualità dei prodotti. Quello che indossiamo viene ormai percepito come un “usa e getta”, un oggetto monouso non così diverso da ciò che rappresenta la plastica.
Il fenomeno Fast Fashion ha un forte impatto ambientale. L’elevata quantità e la bassa qualità dei prodotti contribuiscono in modo decisivo alla crisi dei rifiuti. Inoltre recenti studi di Greenpeace confermano che nella sola UE vengono gettate via 5 milioni di tonnellate di vestiti, l’80% delle quali finisce in inceneritori o discariche.
Secondo un rapporto della Ellen MacArthur Foundation datato 2024, il riciclo dei vecchi abiti coinvolge solamente l’1% del totale. Come conseguenza di ciò, in varie parti del mondo intere città (ad esempio Accra in Ghana) o aree geografiche molto sensibili ai cambiamenti climatici (come il deserto di Atacama in Cile) vengono utilizzate come vere e proprie maxi pattumiere.

La produzione su larga scala dei prodotti fast genera inoltre un ingente utilizzo di mezzi di trasporto per la loro distribuzione in giro per il mondo. Un rapporto del 2023 della ONG svizzera PublicEye sostiene che il colosso della moda spagnolo Inditex (famoso al grande pubblico per i marchi fast Zara e Pull&Bear) trasferisce per via aerea enormi volumi di capi, generando notevoli impatti ambientali che alimentano la crisi climatica. Nel 2023, le emissioni di CO2 legate al trasporto di Inditex sono aumentate del 37%, raggiungendo il loro massimo storico con la cifra di quasi 2 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti.
L’inadeguata gestione dei capi, sia nello smaltimento che nel riciclo, incentiva le criticità dell’inquinamento tessile, uno dei più gravi ed estesi al mondo soprattutto per il rilascio di sostanze chimiche. Si stima inoltre che la produzione tessile sia responsabile del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro. Il lavaggio di capi sintetici rilascia ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari e negli oceani. Ovviamente la fast fashion non può che esasperare il problema.
Un altro impatto pesante che la Fast Fashion incentiva è quello sociale. Molti capi di abbigliamento vengono prodotti in paesi dove i lavoratori sono pagati pochissimo, soffrono la mancanza di diritti e condizioni di lavoro precarie. Molti stabilimenti tessili di brand noti, dove i capi vengono fabbricati e assemblati, si trovano nell’Africa dell’est come Etiopia e Kenya e in alcuni paesi asiatici come Cina, Bangladesh e Pakistan.
Nonostante le comprovate criticità la fast fashion continua a crescere molto, anche grazie agli acquisti online effettuati sulle piattaforme dei marchi fast come H&M, Shein o Primark, o anche acquistando da piattaforme di vendita come Vinted, Amazon o eBay.
Un esempio chiaro è Shein, fondato in Cina nel 2008. Questo marchio propone tra i 3.000 e i 6.000 nuovi capi al giorno ad un prezzo medio di 7 euro. Da inizio 2024 fino ad ottobre l’app ha registrato circa 199 milioni di download. A livello di fatturato, secondo un articolo di Reuters dello scorso ottobre, nel primo semestre del 2024 il brand ha registrato un aumento dei ricavi del 23%, pari a 18 miliardi di dollari. Entro la fine di quest’anno il marchio punta ad un fatturato di 60 miliardi di dollari e 261 milioni di consumatori attivi.
La rivista tedesca Statista riporta che entro il 2027 l’industria della moda fast potrebbe raggiungere e superare 184 miliardi di dollari di fatturato.