Maurizio Gubbiotti
Maurizio Gubbiotti
Economia Ecosistema Interviste

Il futuro dei parchi nel connubio con l’agricoltura?

Maurizio Gubbiotti, ex presidente di Roma Natura, pubblica un libro per promuovere la presenza nei parchi naturali di imprese agricole sostenibili.

Dopo quasi un decennio di presidenza di Roma Natura, l’ente regionale che gestisce i parchi naturali nel territorio del Comune di Roma, Maurizio Gubbiotti ha pubblicato un volume intitolato “Zootecnia&Parchi” (Ed. Point Veterinarie Italie). Per l’autore la soluzione ai problemi di convivenza tra le esigenze di conservazione della natura e quella delle comunità che vivono all’interno e intorno alle aree protette italiane, sta in un nuova concezione dei parchi: meno santuari del conservazionismo e più integrazione con le attività agricole, purché sostenibili, rispettose della salute degli animali allevati, e non invasive per gli ecosistemi selvatici. Un equilibrio difficile da trovare tra borghi che si spopolano, aziende agricole intensive, proliferazione di cinghiali, turismo di massa che riscopre le aree interne e calo della biodiversità: tutti fenomeni in corso contemporaneamente in questi ultimi anni e decenni.

Abbiamo incontrato Maurizio Gubbiotti in occasione della presentazione del libro durante un incontro ospitato dal Municipio IX di Roma.

Può fare qualche esempio positivo e negativo di allevamento di animali in un parco naturale?

Gli esempi sono davvero tanti e, soprattutto, le storie nel libro rappresentano quella che già oggi una realtà: chi sta dentro un parco già produce e alleva di qualità, con metodi biologici, rispettosi dell’ambiente e in maniera estensiva. Nel testo sono riportate anche aziende del territorio romano: ad esempio l’Oasi Kadir all’interno della Marcigliana, uno dei parchi di Roma Natura, molto capace nel tenere insieme sostenibilità ambientale e sociale, benessere animale e produzione di qualità. il benessere animale oggi è una frontiera molto importante: rappresenta una garanzia per la salute degli animali ma anche per quella delle persone che utilizzeranno le loro carni e prodotti.

Dal punto di vista della criticità questo libro lancia la sfida di parchi sempre più capaci di rappresentare un valore aggiunto per la pratica zootecnica e per l’agricoltura, come già succede all’interno dei parchi dove sono presenti: tutte esperienze molto positive che lavorano con i disciplinari del biologico.

Più in generale quali possono essere le criticità della zootecnia vicino o dentro i parchi?

La criticità della zootecnia sta nel meccanismo dell’allevamento intensivo. Oggi produciamo tanto in campo agricolo, in maniera intensiva, per alimentare allevamenti intensivi che poi produrranno le carni per far mangiare noi. Questo è il meccanismo che va fatto saltare. Bisogna coltivare di meno, in maniera più corretta per gli animali; utilizzare parte di questa produzione anche per gli umani; e allevare in maniera più sostenibile: producendo sicuramente meno carne, ma con maggiore attenzione, sia al benessere animale, sia alla qualità della carne, del prodotto.

Tutto ciò ovviamente innesca una dinamica economica. Questo libro promuove l’esistenza di aziende private anche in un campo, la conservazione (motivo per cui sono nati i parchi) che per tradizione, delle associazioni ambientaliste ma anche degli enti parco, è conservazionista al massimo. Tra l’amministrazione pubblica (quella dei parchi), gli interessi privati di chi vuole fare zootecnia sostenibile, e gli interessi dei cittadini – e lasciando sullo sfondo i servizi ecosistemici – non si rischia di immettere un elemento di troppo nel meccanismo?

Credo assolutamente di no. Penso che oggi i parchi, mentre proseguono con forza nella loro mission di protezione della natura e conservazione della biodiversità, debbano raccogliere anche le sfide sociali. Ciò vuol dire avere parchi più aperti e vicini ai bisogni delle persone; più attenti alla qualità di vita delle persone. Questo ruolo lo possono esercitare molto bene, perché i parchi forniscono ogni giorno a tutti noi una serie di servizi ecosistemici: non solo ci permettono di respirare meglio, con meno inquinanti, e di drenare in maniera migliore l’acqua, ma anche di guadagnare in salute. Chi riesce a vivere dentro un parco per un’ora ogni giorno ne guadagna non solo dal punto di vista psichico ma anche fisico: le patologie legate all’ipertensione, all’appartato cardiocircolatorio, diminuiscono vivendo all’interno di un’area protetta. Penso che oggi i parchi debbano davvero raccogliere anche queste sfide, e valorizzare le realtà private che scelgono la sostenibilità, ambientale e sociale. Lì c’è il futuro della zootecnia e dell’agricoltura; e anche della veterinaria che dovrà essere sempre più attenta, ad esempio, alla fauna selvatica. È anche il futuro dei parchi, che rappresentano uno degli elementi più forti per lavorare sulle opere di mitigazione e combattere le conseguenze dei mutamenti climatici.

Nel libro c’è una bella metafora dei parchi urbani di Roma che si diramano a raggiera dal centro verso e oltre il Raccordo Anulare. Ma questi “corridoi ecologici”, come vengono chiamati in gergo naturalistico, sono anche quelli che hanno portato in città alcuni problemi: ad esempio i cinghiali, o anche i gabbiani che hanno seguito il Tevere dal litorale. Ci sono poi altri casi di animali invasivi come quelli che ascoltiamo in sottofondo, i parrocchetti, che si stanno diffondendo in città.

Non c’è dubbio. Quello dei parrocchetti è un ragionamento diverso: perché riguarda le specie aliene, le importazioni sbagliate, gli abbandoni. Per il resto, sì: i corridoi ecologici sono fondamentali. Ce ne sono davvero tanti a Roma, e sono fondamentali per la biodiversità; ma sono gli stessi attraverso i quali i cinghiali arrivano in città. Qui il ragionamento è diverso. La fauna e la flora selvatiche rappresentano un valore indispensabile, assoluto per la nostra vita e per la biodiversità; ma, soprattutto la fauna selvatica, deve essere tenuta in equilibrio. Perciò il vero motivo per cui occorre una politica che diminuisca la presenza del cinghiale (ad esempio a Roma) non è legato ai danni in agricoltura o altro, ma è principalmente ecologico e ambientale. Una specie in surplus rispetto ad altre fa saltare l’equilibrio e danneggia le altre specie: danneggia il sottobosco e le specie più piccole. Soprattutto per questo le politiche di contenimento del cinghiale devono essere più efficaci.

Roma è il comune più agricolo d’Europa. Ce ne vantiamo molto. Praticamente metà del territorio comunale è verde, anche di qualità: boschi, parchi urbani, ecc. Ma Roma vuole davvero essere un comune agricolo? Ricordiamo il nome dei sindaci passati, degli importanti assessori all’urbanistica e al bilancio; dubito che un ascoltatore ricordi qualche assessore all’ambiente o alle attività produttive: quelli che si dovrebbero occupare dell’agricoltura urbana. Non se ne parla quasi mai nelle campagne elettorali o nel dibattito pubblico. Roma vuole essere un comune agricolo?

Roma deve esserlo. Questa è una domanda molto interessante, puntuale. Penso che una delle mancanze più forti da parte degli amministratori sia di prendere poco sul serio la caratteristica agricola di questo comune. Questa caratteristica, che viene dall’agro Romano, ci garantirebbe quella filiera corta, quell’agricoltura di qualità e biologica, ma soprattutto quel rapporto tra territorio persone e natura che dev’essere sempre più stretto. Spero che prima o poi questa cosa diventi realtà, anche pensando a quello che potrebbero essere l’agricoltura e la zootecnia sociali.

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