Giorgio Vacchiano analizza la natura (climatica), le cause (accidentali) e le conseguenze (ancora da valutare) degli incendi che devastano l’Australia. Un paese che, pur avendo gravi responsabilità nell’inazione verso la crisi climatica, condivide le colpe di questa situazione con il resto dell’umanità.
Il nuovo anno è iniziato purtroppo con un grande disastro ambientale: gli incendi che stanno ancora devastando diversi stati australiani. In realtà è dallo scorso ottobre che diverse regioni dell’Australia sono colpite dal fenomeno; tanto che le stime parlano di 8 milioni di ettari già andati a fuoco: l’equivalente di quasi un quarto della superficie italiana.
Com’è successo? Si poteva evitare? L’ambiente australiano si potrà riprendere da questo danno enorme? Anche questo disastro è colpa del riscaldamento globale, visto che in Australia adesso è estate e i primi incendi sono iniziati durante la loro primavera?
Per rispondere a queste domande “Ecosistema“, il programma radiofonico di Earth Day Italia, trasmesso da Radio Vaticana, ha interpellato Giorgio Vacchiano, ricercatore del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano, divulgatore e autore del libro: “La resilienza del bosco” appena pubblicato da Mondadori.
Professore, l’ultima volta ci eravamo sentiti per gli incendi in Amazzonia. Che differenze ci sono nelle cause, nelle dimensioni e nelle conseguenze, tra questi due eventi?
In Australia, normalmente, da un terzo a metà degli incendi sono causati da fulmini. Quindi c’è una grossa componente di accensioni naturali che non avevamo nel caso della Amazzonia, quando la gran parte [degli incendi] era dovuta all’azione volontaria dell’uomo di eliminare la vegetazione. Certamente non possiamo escludere la causa volontaria anche in questo caso. Delle persone sono state sanzionate per aver violato il divieto di utilizzo di fiamme: non necessariamente per aver appiccato direttamente gli incendi. Ma non possiamo dimenticare che, comunque, le cause naturali sono in atto. Un singolo incendio dei tanti che stanno flagellando l’Australia, sicuramente originato da fulmine, da ottobre a questi giorni ha già percorso oltre 500 mila ettari. Quindi è attivo da circa un paio di mesi, e andrà avanti a bruciare.
Durante la precedente intervista lei chiarì che gli incendi amazzonici dell’estate scorsa erano periferici alla grande foresta, nelle zone di contatto con le attività umane; mentre in questo in questo caso mi sembra che ci sia un fronte che procede per molte centinaia di chilometri in avanti.
Ci sono in realtà diversi incendi in atto: moltissimi, più di 200. La grande estensione di territorio percorsa rende questo evento molto più grave di quello in Amazzonia, perché la superficie percorsa è già quasi tripla rispetto agli eventi dell’estate scorsa. Oltre ai vasti territori la novità è la simultaneità dei tanti incendi attivi. L’Australia è un continente vastissimo, con sistemi che seguono cicli e stagioni differenti. Nei vari stati Australiani normalmente gli incendi si alternano durante l’anno, durante la stagione secca. Invece adesso stiamo osservando eventi simultanei, su una grandissima estensione di territorio; e purtroppo, molto spesso, i grandi incendi finiscono per confluire l’uno nell’altro a causa delle condizioni di grande siccità della vegetazione, che favoriscono il propagarsi delle fiamme e creano dei fenomeni quasi senza precedenti, almeno nei territori dove stanno avvenendo.
Possiamo già avere un’idea delle conseguenze a breve, medio e lungo termine di questi incendi?
Certamente una delle conseguenze prevedibili è l’aggravarsi del circolo vizioso tra incendi e cambiamento climatico. Si è già calcolato che, finora, questi incendi hanno immesso nell’atmosfera una quantità di anidride delle carbonica pari alle emissioni degli Australiani di tutto il 2019: siamo oltre i 300 milioni di tonnellate di CO2. Questo naturalmente non farà che aggravare la crisi climatica e il ruolo che essa ha nel facilitare questi eventi anche in altre parti del mondo. Altre conseguenze nell’immediato sono a carico di piante e animali: soprattutto delle specie rare ed endemiche (specifiche del continente australiano, nda.). L’Australia è una regione molto particolare e ricca di biodiversità perché è rimasta isolata per cento milioni di anni da tutte le altre terre emerse. Esistono specie di piante animali che abitano un territorio molto limitato, molto piccolo; quando esso viene distrutto possiamo temere per la sopravvivenza di queste specie. Naturalmente nell’immediato le conseguenze più gravi sono a carico degli esseri umani: le ventotto vite che purtroppo sono state perse finora; le comunità che avranno la vita sconvolta o cambiata; la qualità dell’aria, con il fumo che, come abbiamo visto, interessa anche le grandi metropoli. In altre parti, le più inaccessibili, certamente ci saranno grandi cambiamenti nel paesaggio.
Possiamo comunque pensare che la vegetazione certamente ritornerà In alcune delle parti coinvolte dagli incendi. Cioè, non siamo di fronte a un evento di deforestazione, come nel caso amazzonico: in cui la vegetazione non torna perché non la si vuole. Tornerà, reagirà con i suoi tempi. Molte delle specie sono adattate, abituate a vivere a contatto con il fuoco; perché l’Australia è sempre stata soggetta alla pressione delle fiamme, anche se non con questa intensità. Dovremo vedere alla fine dell’estate quali potranno essere le conseguenze a lungo termine. Purtroppo mancano ancora uno o due mesi, quindi gli eventi, gli incendi, si allargheranno ancora.
Tendiamo a credere che l’attenzione alla tutela dell’ambiente sia massima in Australia: hanno delle leggi protezionistiche e anche delle prassi molto restrittive; come pure in California. Il che differenzia molto questi due paesi da quelli del Sud America, che ha delle prassi meno “ambientaliste”. Eppure questi due paesi molto avanzati, sono spesso alla ribalta della cronaca per questi incendi furiosi. Che riflessioni possiamo fare su queste differenze?
Qui giocano un ruolo fondamentale le caratteristiche del territorio. Sia in Australia sia in California abbiamo una vegetazione particolarmente infiammabile, perché nel corso di milioni di anni di evoluzione ha sempre convissuto con le fiamme. Quindi ha imparato ad essere relativamente o poco danneggiata, o se non altro a sapersi riprodurre dopo che è stata distrutta dalle fiamme. In alcuni casi la vegetazione ha evoluto addirittura delle caratteristiche che fanno sì che “voglia”, “desideri” bruciare. Pensiamo agli eucalipti: la loro corteccia che si stacca a striscioline dal tronco è una formula perfetta l’accensione di un caminetto. Altre specie vegetali hanno degli oli e delle resine che aumentano la propria infiammabilità, perché cercano in questo modo di avvantaggiarsi su tutte le specie concorrenti che magari non sono in grado di resistere alle fiamme.
Il secondo elemento che caratterizza entrambi questi territori è la grande contiguità di estensioni vegetate, coperte dalla vegetazione. Non dobbiamo pensare ai territori a cui siamo abituati, come quelli europei o italiani; ma a grandissime estensioni continue di arbusti, di foreste di eucalipto, di bush, di savana arborata, su cui le fiamme possono correre su grandissime distanze senza mai trovare ostacoli, interruzioni, aree urbanizzate o coltivate. Proprio perché la presenza umana, soprattutto in Australia, è estremamente limitata. È un continente molto scarsamente popolato: meno di 0,1 abitanti per chilometro quadrato. Perciò, quando ci si scatenano, questi fenomeni possono effettivamente coprire distanze enormi e hanno a disposizione moltissima vegetazione da consumare.
Tra i tanti commenti sui social, buoni, cattivi anche crudeli a volte, mi è capitato di leggere una riflessione che vorrei sottoporle. Noi esseri umani abbiamo sviluppato tecnologie, come le armi che possono distruggere intere città, ed altre per viaggiare nello spazio e andare su altri pianeti. Eppure non siamo capaci di spegnere un incendio, cioè una minaccia che è con noi dall’alba dei tempi. Vuol dire che abbiamo concentrato la nostra scienza sui problemi sbagliati?
Non lo so. Ci sono ancora, per fortuna direi, dei fenomeni sulla Terra che sfuggono al nostro controllo; che sono di un ordine di grandezza ben superiore alle nostre capacità di controllare il pianeta o influenzare i suoi processi. È vero che nell’ultimo secolo abbiamo purtroppo guadagnato la capacità di influenzare alcuni processi del pianeta, come quelli climatici. Ma quando si tratta di grandi eventi, come quelli in cui un intero continente è legato a incendi devastanti come in questo caso, la nostra capacità si arresta. Questi incendi possono sviluppare potenze superiori ai 50 o 100 mila chilowatt per metro lineare di fronte di fiamma: un’energia venticinque o trenta volte superiore a quella che le squadre di terra possono affrontare quando provano a spegnere un incendio, che è l’unico modo per poter controllare le fiamme. Quindi si tratta di fenomeni assolutamente ingovernabili. La prevenzione vede l’Australia all’avanguardia nel mondo: nella gestione del combustibile, e nella riduzione della vegetazione per cercare di abbassare l’intensità di questi incendi quando passano. Anche queste forme di prevenzione evidentemente non sono state sufficienti; ma forse non potevano esserlo, di fronte alla tempesta perfetta di condizioni meteorologiche che ha portato alla grande siccità degli ultimi due anni e quindi a queste esplosioni di fuoco che stiamo vedendo.
Tra le “storie” più gettonate sui social in queste giornate c’è anche quella di sorta di “giustizia climatica” che si sarebbe abbattuta sull’Australia che, tra i paesi sviluppati, è uno dei meno volenterosi nelle lotte al cambiamento climatico e nelle assunzioni di responsabilità. Possiamo trarre delle lezioni morali da quello che sta succedendo?
Su questo in realtà io andrei molto cauto. È verissimo che l’Australia sia uno dei paesi meno virtuosi dal punto di vista climatico. Già a Parigi (COP21, conferenza sul clima del 2015, nda.) aveva degli obiettivi modesti, e sta rinunciando a raggiungere anche quelli che si era posti. L’Australia ha un grande problema con il carbone, che rappresenta ancora una grossa parte della sua economia attraverso le esportazioni; e sappiamo benissimo che il carbone non è compatibile con il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Tuttavia c’è il fatto che il cambiamento climatico è un fenomeno planetario, e tutti gli stati sono vulnerabili ed esposti. Non esiste purtroppo questo genere di giustizia. Nel senso che anche i paesi climaticamente molto virtuosi possono essere particolarmente vulnerabili. Pensiamo ai piccoli stati insulari, o al Bhutan, o all’Etiopia, o ai paesi che si stanno distinguendo per la loro azione climatica, anche se magari sono molto piccoli; che però sono particolarmente esposti agli eventi estremi: all’innalzamento del livello dei mari, alla fusione dei ghiacci e così via. È qualcosa che davvero accomuna tutti i paesi del mondo. L’Australia è responsabile per la parte di emissioni di cui è protagonista; ma come ognuno degli altri paesi che emettono co2, noi compresi. Ciascuno di noi responsabile per la propria parte di ciò che oggi avviene in Australia, e di quello che domani verrà nelle altre parti del mondo vulnerabili a questi eventi.
E c’è anche l’altra faccia della medaglia: un disastro che colpisce l’Australia non colpisce solo gli australiani ma anche tutti noi.
Esattamente, perché ha dei riflessi globali, non locali, nelle sue conseguenze sul pianeta.