Intervista a Dror Eydar, ambasciatore d’Israele in Italia che, giunto a fine mandato, racconta nel libro “All’Arco di Tito” la sua esperienza diplomatica e culturale.
L’ambasciatore Eydar mi accoglie nella sua residenza romana nel quartiere Parioli, un luogo di Roma caratterizzato dalla presenza di molti istituti culturali, accademie e ambasciate di diversi paesi; un quartiere perciò permeato di quell’intellettualismo e cosmopolitismo che è un tratto distintivo anche del padrone di casa. Dror Eydar infatti non è un diplomatico di carriera: non è un politico e non proviene dagli ambienti elitari della diplomazia internazionale. La nomina ad ambasciatore di Israele in Italia è stato il suo primo incarico del genere, conferito dall’allora Primo Ministro Netanyahu a quello che, fino al settembre del 2019, era stato un intellettuale, uno storico, un umanista, un commentatore della società israeliana come editorialista del principale quotidiano nazionale. La sua levatura culturale si intuisce dagli arredi della residenza: libri, quadri, riviste di critica storica, oggetti della tradizione ebraica e molti testi sacri. La presentazione stessa del libro è stata caratterizzata da interventi di intellettuali e religiosi che hanno portato presto il discorso sullo spessore della cultura ebraica e sulla storia, intensa e drammatica di questo popolo.
Il libro è permeato di questo sguardo diacronico (come lo definisce Eydar nell’intervista che segue) che racconta il presente sovrapponendolo al passato: una stratificazione di temi dell’oggi (politica, economia, scienza, ambiente, tecnologia, società) sovrapposti ad eredità che non è possibile dimenticare: tradizioni popolari, testi sacri, miti di fondazione, echi di guerre e persecuzioni; fughe, migrazioni, deportazioni e ritorni che convivono come piani di una realtà aumentata negli stessi luoghi che l’Ambasciatore racconta in questo diario triennale. È intitolato “All’Arco di Tito – Un ambasciatore d’Israele nel Belpaese” (Salomone Belforte Editore); il riferimento è al celebre fregio del monumento romano che “fotografa” la spoliazione degli oggetti sacri seguita alla distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C. Le 542 pagine sono una selezione delle “Cartoline da Roma”: post a cadenza settimanale che l’Ambasciatore ha pubblicato su Facebook per raccontare l’esperienza diplomatica. Pur scrivendo per i suoi connazionali, Eydar riesce nell’intento dichiarato di far guardare il mondo agli italiani con gli occhi di un israeliano. Del resto, come scrive nel prologo: “Nei miei discorsi parto spesso dal presupposto che i miei ascoltatori incontrino per la prima volta un rappresentante israeliano, e che questa potrebbe anche essere l’ultima volta per loro”. Il libro dunque è una buona occasione per il lettore italiano di valutare la prospettiva sul mondo di un popolo tanto vicino ma, ai più sconosciuto e, in definitiva, incompreso, al di là dei torti e delle ragioni. Gli scritti sono raccolti per temi. Alcuni approfondiscono l’ebraismo attraverso i libri sacri, i religiosi, i filosofi, le ricorrenze e le tradizioni (“Esegesi”, “Festività”); altri interpretano la storia, antica e recente, rievocando i fatti e le conseguenze (“Tempesta devastante”, “Medio Oriente”, “Sionismo”, “Istituzioni ebraiche”); altri raccontano i luoghi e le comunità visitati durante il triennio (Siracusa, Rieti, Toscana, L’Aquila, Calabria, Vaticano…). Non manca uno sguardo sulla cronaca italiana, come nei capitoli: “Donne (violenza sulle)”, “Disabilità”, “Transfobia”, “Pandemia”. Tra le riflessioni c’è anche una pagina dedicata all’Earth Day, la Giornata Mondiale della Terra, che Eydar commenta (come quasi sempre accade anche per gli altri temi) citando un brano tratto da un libro religioso: “Quando l’Onnipotente creò Adamo, lo condusse a fare un giro nel giardino dell’Eden. Gli disse: ‘Guarda le mie opere quanto sono belle e meravigliose! Le ho fatte tutte per voi. State bene attenti a non spogliare e distruggere il mio mondo, perché se lo farete, nessuno potrà porvi rimedio’.” (Qohelet Rabba 7)
Le “memorie” dell’Ambasciatore, e il possibile contributo del suo paese a un futuro migliore, non si limitano infatti al solo campo culturale: durante il mandato Eydar ha incontrato amministratori locali e nazionali, imprenditori e innovatori, per promuovere tra gli altri uno dei prodotti principali che Israele può offrire al mondo: il know how tecnologico. Il paese racchiuso tra il Giordano, il mare e il deserto, sin dalla fondazione nel 1948, ha dovuto affrontare il problema di sviluppare un’agricoltura sufficiente alla popolazione in rapida crescita, a fronte di un territorio scarso di acqua potabile. Oltre settant’anni di progressi nel risparmio idrico, negli impianti di desalinizzazione e nelle tecniche di agricoltura di precisione, fanno oggi di Israele un esempio a cui paesi come il nostro, in passato ricchi di acqua, ma oggi messi in crisi dal cambiamento climatico, guardano con estremo interesse.
Qual è il bilancio dei suoi tre anni a Roma? Che cosa le rimane di questo triennio, in positivo e in negativo?
Non sono stati tre anni normali come per altri ambasciatori, in altri periodi. Meno di sei mesi dopo il mio arrivo è piombata su di noi la pandemia, che ha cambiato tutto ciò che conoscevamo prima: divido la vita, anche la mia, in un prima e un dopo. Ci sono state sfide molto difficili da affrontare. Tre anni… è come un dottorato: un PHD sulla società italiana, sull’Italia, ed anche sull’essere diplomatico e ambasciatore. Fin dall’inizio per me non è stato solo un ruolo diplomatico, un tramite tra due ministeri degli esteri. È vero, sono l’ambasciatore del moderno Stato di Israele, ma sono anche l’ambasciatore dello stato ebraico, della civiltà ebraica, che è la base della civiltà cristiana; ed entrambe sono alla base della civiltà occidentale. Perciò un ambasciatore è come un mediatore: medio tra i governi italiano e israeliano, ma ho mediato anche con la cultura israeliana, ebraica. Tutto è connesso con questo concetto. Siamo riusciti a rafforzare le relazioni tra i nostri due paesi; ad aumentare il bilancio commerciale; a rafforzare le nostre relazioni militari, tra le forze di polizia e di intelligence; nei settori della tecnologia, dell’agricoltura, dell’acqua, dei suoli, dell’energia. Ovviamente non abbiamo avuto tempo di risolvere tutti i problemi, ma in generale sono contento: penso di lasciare al mio successore un’ambasciata più forte e relazioni solide.
Ha accennato alle basi comuni delle nostre culture. Al suo arrivo non conosceva l’Italia, e la lingua italiana. Adesso quali le sembrano le caratteristiche che accomunano e distinguono italiani e israeliani?
Anche gli israeliani pensano che gli italiani gli somiglino: siamo mediterranei, viviamo in stati democratici, occidentali. Per noi l’Italia è il paese europeo più “amabile”: il preferito. La maggior parte dei grandi nomi in molti settori sono italiani: nella moda, nell’industria automobilistica e in altri settori. In questo impariamo da voi. Quello che manca in Italia, ma che in Israele è un imperativo categorico è il senso dell’urgenza. Non avete il senso dell’urgenza: aspettate finché il problema non arriva “dentro la stanza”. Qui c’è un grande divario tra settore privato e governo. In Israele ci sono rapporti e collaborazione: c’è simbiosi tra settore privato, settore accademico e settore governativo. Quando abbiamo un problema tutti i settori collaborano. Questo succede ad esempio in campo militare, ma anche per la gestione dell’acqua. D’altra parte l’Italia è un paese molto più grande di Israele. Un’altra similitudine che ho notato è che anche la società italiana si trova nel processo storico di formare insieme un popolo. Per mille anni, su questo territorio ci sono state città-stato… come le tribù di Israele. Nel moderno Israele abbiamo raccolto insieme ebrei di oltre cento paesi: migliaia di comunità. Siamo in un processo storico dell’essere insieme, del vivere insieme, del creare ponti per cancellare i divari tra le parti. Non è facile per un popolo che in duemila anni non è stato insieme. Avevamo dimenticato come gestire uno stato moderno: l’esercito, l’economia, la scienza. Tutte ciò siamo riusciti a svilupparlo in questi 74 anni dalla fondazione dello Stato di Israele. È un miracolo. Anche la società italiana, come ho visto, vive questa sfida. Credo che la base della società italiana sia ricca, dal punto di vista storico e culturale; perciò sono ottimista per questi due casi: il vostro e il nostro.
In Italia è luogo comune che ci accomuni anche l’instabilità dei governi, che cadono molto facilmente. Anche voi lo vedete come un impedimento a fare bene?
In Israele è successo più che altro negli ultimi tre anni. Non è normale. Non siamo abituati a questa situazione. Lo Stato e la società sono stabili, ma è vero che elezioni ripetute esprimono un dibattito pubblico profondo, riguardante la questione dell’identità. Siamo uno stato giovane ma un popolo molto antico. Dall’alba della nostra esistenza come popolo, durante la monarchia, ai tempi narrati dalla Bibbia, e poi in esilio, tutte le generazioni si ponevano la domanda eterna: chi siamo? Anche oggi: chi è questo popolo che nel XIX secolo si è svegliato dopo 2000 anni del sogno nazionale? È un popolo che è riuscito a fare una cosa che nessun altro nella storia ha fatto: tornare a casa, ricostruire la patria, rinnovare la nostra lingua. Pensi: è la stessa lingua che parlava Re Davide; che Mosè parlava con Dio; che parlavano i profeti Isaia e Geremia; che parlava Gesù. E adesso in questa lingua noi parliamo e possiamo leggere. Ci definiamo il popolo “del libro”, ma io dico che non basta: siamo il popolo “dei libri”, perché in migliaia di anni siamo riusciti a costruire un grattacielo testuale immenso che non troviamo in altre nazioni. Un grattacielo che continuiamo a leggere e di cui possiamo visitare ogni piano per imparare questa saggezza, insieme antica e moderna. Abbiamo la Bibbia, la Mishnah del I e II sec. d.C, il Talmud IV e V sec., il Deutoronomio del XII sec. a.C. Tutto questo possiamo leggere e imparare, perché abbiamo fatto una cosa fuori dall’ordinario: come c’è stato un Risorgimento italiano, così c’è stato un Risorgimento ebraico.
Quali sono le preoccupazioni degli israeliani rispetto all’ambiente? Quali sono i problemi e le sfide più urgenti e sentiti?
Adesso abbiamo una sfida in comune con l’Italia: l’acqua, la siccità. Due terzi di Israele sono deserto. Siamo riusciti a farlo fiorire. Il 90% della nostra acqua potabile è desalinizzata. Il 90% dell’acqua utilizzata nell’industria e nell’agricoltura è depurata e riciclata. Questa era una grande sfida che abbiamo dovuto affrontare fin dal ritorno alla nostra antica terra. Anche l’energia è una grande sfida. Abbiamo trovato il gas nel nostro mare (da circa dieci anni Israele ha iniziato a sfruttare giacimenti di gas sufficienti all’indipendenza energetica e all’avvio dell’esportazione verso altri paesi, nda.). Abbiamo offerto anche all’Italia di costruire un gasdotto diretto tra Israele, Grecia e Puglia. Per l’inquinamento dell’ambiente abbiamo in programma di cambiare fonti di energia nei prossimi anni (l’attuale mix delle fonti energetiche di Israele è composto circa al 65% dal gas naturale, al 30% dal carbone e al 5% dal solare, nda). Collaboriamo a tutte queste sfide anche con l’Unione Europea.
Ha accennato all’apertura di Israele all’Italia per condividere il gas e la tecnologia per l’agricoltura. Le maggiori associazioni ambientaliste italiane hanno fatto un appello ai politici in vista delle prossime elezioni per orientare l’agricoltura verso il risparmio idrico. Che risposte avete ricevuto alle vostre proposte da parte di politici, imprenditori e istituzioni scientifiche italiane?
Lo scorso maggio a Napoli abbiamo organizzato “TechAgricolture”, una grande conferenza sui temi dell’acqua, della crisi alimentare, dei semi, degli alberi, delle fattorie digitali, dell’energia solare, ecc. È stata una prima volta: speriamo diventi una conferenza di tutti i paesi mediterranei. Abbiamo portato 23 aziende israeliane e 80 italiane, con più di 300 incontri bilaterali. Israele ha la tecnologia: possiamo, vogliamo, e siamo pronti a condividerla con l’Italia, specialmente in questa sfida dell’agricoltura di precisione. Abbiamo imprese che possono facilmente aumentare del 15% le rese di prodotti di un campo italiano, grazie a satelliti, droni e altre tecnologie. In Israele, grazie alle tecnologie dei sistemi di irrigazione perdiamo solo l’8% dell’acqua; in Italia penso che sia più del 30%. Con l’agricoltura di precisione possiamo non solo irrigare ogni pianta goccia a goccia ma, ad esempio, c’è una società che scalda ogni radice in maniera differente: senza serre. Israele ha migliaia di innovazioni e start up, specialmente in questo settore agricolo. Abbiamo aziende che producono acqua dall’umidità ambientale: ci sono impianti che in questo modo producono 6000 litri al giorno. Poi, come detto, ci sono i dissalatori: avete tante spiagge, potreste costruirne in ogni regione. In Israele i dissalatori forniscono acqua potabile oltre le nostre necessità, ed ogni anno ne reimmettiamo in mare 100 milioni di litri.
L’offerta sembra allettante. Qualcuno ha risposto?
Sono un ambasciatore, non un capo di stato. Però, perché aspettare il Governo? Anche le regioni potrebbero farlo. Non ho familiarità con le vostre regole ma perché no? Non è come lanciare una navicella spaziale: è un dissalatore, e non costa neanche molto.
Israele e Italia sono paesi ricchi, occidentali, e relativamente piccoli; ma il pianeta è uno solo e sappiamo che vivere bene avendo intorno paesi con ambienti disastrati a lungo andare non paga. L’ONU, con l’Agenda 2030 e le conferenze sul clima, impone di condividere queste tecnologie con il resto del pianeta: con chi soffre la siccità in primis. Questi dialoghi, queste tecnologie, sono a disposizione di chiunque?
Si. Questa è la nostra tradizione: condividere la nostra scienza, la nostra coscienza, la nostra saggezza, le nostre idee, le nostre innovazioni, con tutto il mondo, per il bene del mondo. Ogni innovazione in agricoltura, in campo alimentare, idrico… è un obbligo condividerle con tutto il mondo.
Che cosa c’è nel suo libro? Quali momenti della sua esperienza in Italia le rimarranno più impressi? Quali aspetti dell’Italia sono entrati a far parte del suo bagaglio culturale?
Il libro è la summa della mia missione di ambasciatore. In questi tre anni ho scritto molte “Cartoline da Roma”: post di Facebook settimanali che raccontano la mia avventura intellettuale nell’ambasciata. Ho raccontato la situazione tra Israele e Italia, gli eventi, i miei discorsi, gli interventi, le lezioni; i paesi, le città i luoghi che ho visitato; la storia, la filosofia, la letteratura, la poesia, l’ebraismo. Anche la mia solitudine: perché ho vissuto qui da solo. I miei figli vivono in Israele. Credo sia un libro molto interessante anche per gli italiani: è una fonte di tante informazioni e analisi geopolitiche, sul medio oriente, sull’antisemitismo, sulla società e la storia di Israele. Volevo parlare di questi argomenti da un punto di vista nuovo, non banale. Spero che gli italiani leggano questo libro perché non è solo “Israele in Italia”, ma anche “Italia in Israele”. Questo è anche un libro italiano. Spero che gli italiani possano trarre ispirazione da queste mie idee.
Di solito chi vive per un periodo in Italia prende qualcosa dalla nostra cultura, nel bene e nel male, che sia il cibo, il vestiario, l’estetica dell’arte, le abitudini di vita… o di guida. A lei che cosa rimane?
L’Italia mi ha dato una prospettiva universale che possedevo solo in teoria, ma che qui ho acquisito meglio. In Israele ero “dentro” il quadro, nell’epicentro; in questi tre anni ho avuto il privilegio di allontanarmi dal quadro. Come nei dipinti impressionisti, che consistono di tanti punti, più siamo vicini e meno vediamo i problemi e la bellezza del quadro. Ho avuto il privilegio di stare qui e guardare il mio paese e il mio popolo; questo miracolo che si chiama Israele, questo sogno che abbiamo realizzato con la fondazione della Stato dopo 2000 anni. Dall’Italia porto con me un apprezzamento maggiore dell’Europa: ora capisco meglio l’Europa, e i suoi problemi; come anche i problemi degli ebrei della diaspora, che vivono fuori da Israele. Amo l’idea di bere un caffè in piccole tazzine: molto elegante. Ma non voglio ridurre il tutto al mangiare e al bere bene, che pure è importante. Più importanti sono le persone: ho avuto il privilegio di conversare con tanti intellettuali italiani; amici che ho conosciuto qui. Vorrei tornare da turista, per vedere le bellezze di questo paese meraviglioso come non ho avuto la possibilità di fare da ambasciatore, a causa dei problemi della sicurezza. Tra tutti i paesi del mondo, l’Italia era la meta più “naturale” per me come ambasciatore: per tutta la vita mi sono occupato di letteratura, storia, filosofia, religione, arte, politica. Tutto questo si trova in Italia in gran quantità. È molto facile per me vivere in due dimensioni: una sincronica, come tutti, nel presente; e una diacronica. Per me è facile pensare a che cosa è successo qui cento, mille, duemila anni fa. Roma è come Gerusalemme: ogni angolo ha una lunga storia. C’è un legame profondo tra le due città. Non a caso nel 1862, dopo l’Unità d’Italia, un intellettuale ebreo tedesco, Moses Hess, è stato ispirato dal Risorgimento per auspicarne uno anche per noi. In quel 1862, quando Roma non era ancora stata liberata, lui pubblicò un libro: “Roma e Gerusalemme”; nella prima pagina scrisse profeticamente: “Con la liberazione della Città Eterna sul Tevere, inizierà la liberazione la liberazione della Città Eterna sul Monte Moriah” (la montagna dove Abramo approntò il sacrificio di Isacco e che una tradizione ebraica identifica con il Monte del Tempio a Gerusalemme, nda.). L’Italia ha avuto grande parte nella realizzazione di questo sogno millenario perché qui, sul suolo italiano, a Sanremo nel 1920 (durante una conferenza tra rappresentanti di Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia, Giappone e Stati Uniti, nda.), è stato creato l’embrione dello stato ebraico che 28 anni dopo è nato come Stato di Israele. Abbiamo legami storici molto profondi e credo che questi rapporti si approfondiranno e continueranno a migliorare.