Foto: skeeze - Pixabay.com
Ecosistema Pianeta

Linci, orsi, lupi e sciacalli: l’Italia sempre più selvatica, ma senza pericoli

Daniele Zovi, ex forestale e autore del successo editoriale “Italia selvatica”, racconta il rapporto degli italiani con il loro territorio naturale, auspicando una “nuova alleanza con gli animali selvatici” che rimedi ai delitti del passato.

Un’infanzia tra i boschi, una vita dedicata a difendere la natura nel Corpo Forestale dello Stato; e poi la maturità, che sta utilizzando scrivendo su alberi e animali selvatici, per mettere su carta e trasmettere ai giovani il rispetto e l’amore per l’ambiente.

Daniele Zovi, ex generale dei Carabinieri Forestali, oggi è un apprezzato scrittore e divulgatore. I suoi volumi sono in tutte le librerie italiane, e la sua presenza a conferenze, incontri, interviste e dibattiti è sempre più richiesta e apprezzata.
“Ecosistema”, il settimanale radiofonico di Earth Day Italia in onda su Radio Vaticana, lo ha contattato per parlare di orsi, sciacalli, lupi, cinghiali e altri animali. Tutte “presenze” che popolano quella “Italia Selvatica” che dà il titolo al suo ultimo libro (ed. Utet): un’opera che racconta la bellezza di una natura primordiale che cerca di sopravvivere alle attività umane che la minacciano.

 

Iniziamo il racconto dell’Italia selvatica dall’orso marsicano, un animale e un’emergenza di cui non si parla abbastanza. Ne restano poche decine di esemplari e ciò, di solito, vuol dire che un animale è sull’orlo dell’estinzione. Per l’Italia sarebbe come veder crollare la Torre di Pisa. Lei che è stato sul campo come vive questa situazione?

È veramente un’emergenza, ma non tanto per il numero complessivo della popolazione [di orsi marsicani] che è attorno ai 50 individui. Certamente siamo vicino al limite critico, ma [il problema] è che le femmine in età adulta, e quindi fertile, sono veramente poche per garantire una popolazione. La situazione è critica perché questa, che qualcuno chiama “sottospecie”, è un po’ diversa dall’orso bruno “europeo” (“Ursus arctos arctos”, la specie vera e propria di cui il marsicano è appunto una sottospecie locale, nda.). Ha delle caratteristiche somatiche diverse, è più piccolo, ma anche caratteriali: è più buono per dirla in breve. Perciò vedere messa a rischio una specie di questo tipo è veramente drammatico, e bisogna fare qualcosa. Il Parco [Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise] svolge una funzione di tutela fondamentale, ma bisognerebbe lavorare molto sulla genetica.

Ha citato il Parco Nazionale: nel libro c’è la storia di un’orsa, Gemma, che è una beniamina dei dintorni. Ma quali sono i rapporti tra uomini e orsi? Purtroppo alla cronaca arrivano dei casi ben più drammatici.

Il rapporto dell’uomo con l’orso è buono, soprattutto in Abruzzo, Lazio e Molise dove l’orso non si è mai estinto. È lì da tempo immemorabile, e negli ultimi quattrocento anni [il marsicano] è stato isolato dal resto degli orsi d’Europa. Questo è il motivo per cui ha formato dei caratteri fenotipici (fisici) diversi dagli altri. Più complesso è il rapporto tra i trentini e la nuova colonia di orsi che c’è lì. [Una colonia] sostanzialmente creata dall’uomo tra il 1999 e il 2002, innestando sette femmine e tre maschi provenienti dalla Slovenia in una popolazione ormai al lumicino: due o tre individui. Sulle Alpi l’orso è stato salvato con questa operazione. Operazione brillantissima, perché in una ventina d’anni siamo già arrivati a circa sessanta individui. I maschi di questa popolazione vanno “in giro”: in Lombardia, nel Veneto, in Friuli, in Trentino Alto Adige, e anche all’estero in Svizzera, Austria, Germania. Sono un po’ “vagabondi”. Però con la popolazione il rapporto si è fatto un po’ difficile, specialmente negli ultimi anni; perché qualche orso (non moltissimi) è particolarmente confidente: si avvicina alle case, tenta di entrare nelle stalle, nei caseifici, come nel caso di M49, e quindi la gente comincia a innervosirsi.

Lei è stato generale del Corpo Forestale e vive i boschi da sempre. Che differenza che c’è tra la situazione reale e la percezione del pubblico nel caso di altri due animali molto particolari: il lupo e il cinghiale, che in questo momento storico sono in espansione, territoriale e numerica?

Per quanto riguarda il lupo la differenza tra il pericolo reale e quello percepito è enorme. Basta nominare la parola “lupo” e la gente si mette in allarme. Il lupo, attraverso una diffusione dovuta alla caparbietà di questa specie, alla sua elasticità, alla capacità di adattarsi, è arrivato spontaneamente in regioni da dove mancava da due secoli e dove la gente si era totalmente disabituata alla sua presenza. Dove arriva crea moltissimo allarme, legato alla cattiva fama che il lupo, ahimè, porta con sé. [Cattiva fama] alimentata dalle prediche medievali del buon pastore, il prete, che protegge le pecorelle, noi, dal pericolo costituito dal lupo, che impersona il diavolo. Un’immagine molto forte e diffusa in tutta la cultura cattolica, ma anche dalle favole: cappuccetto rosso, i tre porcellini; il lupo è sempre cattivo. In realtà il pericolo per la sicurezza dell’uomo non c’è. Quando la gente che incontro mi dice: ho paura ad andare nel bosco, a funghi, ho paura a fare la gita che ho sempre fatto; io dico che è una paura mal riposta. Perché il lupo non si fa vedere. Non avrai mai la fortuna di vedere un lupo… di provare l’emozione di vedere un lupo.

Lei ha mai provato questa emozione?

Si, ma perché andavo in cerca dei lupi. Sono trent’anni che mi occupo di questa specie: sono andato in Abruzzo; sono andato sulle colline bolognesi: a 300 metri dalla casa di Vasco Rossi c’è un branco di lupi. Il branco ha un proprio territorio, il ché vuol dire che rimane lì. Per quasi tutto il primo anno i piccoli sono stati sempre in un unico posto ed io, accompagnato dai miei colleghi, andavo ad osservarli con il cannocchiale, da lontano. Questo è stato uno dei primi incontri. Poi [li ho visti] anche in Abruzzo e sull’Appennino Tosco Emiliano; mentre adesso che sono arrivati in Veneto non riesco più a vederli: è molto difficile.

Passiamo al cinghiale, che è tutta un’altra storia.

Il cinghiale ha una storia singolare. Ci sono sempre stati in Italia, soprattutto in Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo e pochi in Calabria. Negli ultimi 10-15 anni troviamo il cinghiale in tutte le regioni d’Italia, escluse le isole. O meglio, in Sardegna c’è, ma è quello che c’è sempre stato: ha dimensioni più piccole del nostro [continentale]. In tutta Italia troviamo quindi il cinghiale che si è diffuso: molto più grande di quello “italico”.

(Daniele Zovi parla qui della differenza tra la storica popolazione autoctona dei cinghiali della penisola italiana, di taglia più piccola rispetto a quelli europei, e quella attuale, frutto di incroci con animali introdotti da popolazioni di altri paesi. La questione della “purezza” dei cinghiali italiani è una discussione aperta a livello scientifico come abbiamo approfondito recentemente in questo articolo, nda)

Il maschio “italiano” arriva a 100kg; un paio di mesi fa in provincia di Chieti ne è stato abbattuto uno che pesava 203kg. Che cosa è successo? L’uomo, nella sua incontentabile furia di cacciare prede sempre più grosse, ha importato cinghiali dai paesi dell’est, soprattutto dall’Ungheria, perché ha scoperto che sono molto simili ai nostri ma molto più grandi. Sono anche più prolifici. Questo ha fatto sì che la popolazione sia aumentata a dismisura. I cinghiali sono usciti dalle aree dove avevano sempre vissuto e sono andati a conquistare nuovi territori: dal Friuli Venezia Giulia al Veneto, alla Lombardia… ovunque, creando danni all’agricoltura. Anche nel sud: a fine 2019 le regioni Campania e Basilicata hanno dichiarato che non sarebbero riuscite a risarcire i contadini per i danni dei cinghiali come avevano fatto nel 2018; perché i danni erano molto aumentati e nei loro bilanci non era previsto un risarcimento così alto. Ciò vuol dire che i danni all’agricoltura sono molto consistenti. Inoltre, tutto questo vagare in cerca alimenti che nella macchia non trovano perché sono più pesanti, grossi e numerosi, prevede anche l’attraversamento delle strade; con la conseguenza, assolutamente frequente e diretta, di provocare incidenti stradali anche mortali, come è successo a Lodi nel 2019. Quindi io vedo la necessità di una caccia di selezione, cioè fatta da gente preparata (si chiamano selecontrollori) per contenere questo numero [di cinghiali], sproporzionato alle nostre abitudini ma anche alle attività dell’agricoltura e del turismo.

Lei sa bene che questa figura del selecontrollore si confonde con quella del cacciatore, perché alcuni cacciatori hanno questa qualifica. Il mondo della caccia spinge per aumentare le possibilità di dare la caccia al cinghiale, proprio arrogandosi questo ruolo di “regolatore” della popolazione di cinghiali. Abbiamo intervistato Coldiretti che auspica una maniera di permettere ai proprietari dei fondi agricoli, dotati di porto d’armi a fini di caccia, di difendersi da questa invasione dei cinghiali. Lei sarebbe d’accordo ad aprire ad una caccia più intensiva al cinghiale, dando questo ruolo ai cacciatori?

Personalmente no. È un mio punto di vista. Credo che questo [ruolo] debba essere interpretato dallo Stato come controllo numerico di una popolazione troppo numerosa. “Controllo numerico” vuol dire che viene fatto nel rispetto della specie: noi non vogliamo che si estingua. Prevede un prelievo su “tutte” le classi di età e con determinate regole. In genere i cacciatori non fanno questo, perché puntano al bersaglio grosso: all’animale più grande e al trofeo più vistoso, quello da presentare ai loro amici cacciatori. Le procedure [di selezione] sono abbastanza complesse. Hanno dato buoni risultati sia in provincia di Gorizia, sia sui Colli Euganei l’anno scorso. Però vanno fatte con molta scienza e tecnica. Non basta affidare ai cacciatori questa operazione. Va affidata a gruppi di persone molto preparate ed anche eticamente motivate.

Nel suo libro si parla anche di animali un po’ meno noti al pubblico italiano; per esempio le linci e gli sciacalli dorati. Dove sono e da dove sono venuti?

L’ho intitolato “Italia selvatica” per sottolineare come l’Italia, nonostante sia una delle otto potenze mondiali nell’economia e nell’industria, si stia rinselvatichendo: stia aumentando di naturalità. I boschi sono molto aumentati. Sono aumentati molto gli erbivori: cervi, caprioli, camosci; e anche i carnivori. In questi ultimi vent’anni abbiamo assistito all’aumento, ad esempio, dello sciacallo dorato; che proviene dai paesi dell’est: il suo luogo d’origine è la Bulgaria, dov’è più numeroso. I “nostri” arrivano dalla Slovenia, entrano dal Friuli Venezia Giulia, e un paio di individui sono stati visti attraversare il Po a nuoto. Come dimensioni è una via di mezzo tra la volpe e il lupo. Come attitudine e abitudini è più simile alla volpe: si nutre di piccoli roditori, di rospi, rane, qualche uccelletto. È già presente in Friuli, in Veneto, in Trentino, in Lombardia e appunto anche in Emilia. Secondo me arriverà a brevissimo anche nelle regioni centrali.

Quindi possiamo già tranquillizzare la gente: se è a metà tra il lupo e la volpe avrà la stessa pericolosità, cioè nulla, nonostante il suo nome non molto rassicurante.

No, assolutamente non è pericoloso. La lince invece è un animale in via d’estinzione, ad altissimo rischio (in Italia, nda.). Quando ero ancora in servizio nel Corpo Forestale dello Stato ne abbiamo portate in Friuli Venezia Giulia: ci furono regalate dalla Svizzera, dove invece è una specie numerosa. Una di questa era anche gravida; ha partorito in Friuli, dove era presente un solo esemplare nella parte alta del territorio. Perciò adesso ne abbiamo già cinque, ma in altre regioni non c’è. Persino Dante nomina la lince (chiamandola “lonza” nel primo canto dell’Inferno, nda.) quindi la conosceva: nella Toscana del 1300 c’era. Noi uomini ci siamo macchiati di molti delitti su questo pianeta, lungo i secoli della nostra storia; e noi, uomini del terzo millennio, dobbiamo riparare ai danni fatti. Dobbiamo fare tutto il possibile per una nuova alleanza con gli animali selvatici

Come forestale lei ha avuto a che fare con il meglio e il peggio del comportamento delle persone nei confronti della Natura. Da una parte ci sono gli escursionisti, gli ambientalisti, gli sportivi, che rispettano i luoghi; dall’altra, purtroppo, ci sono il turismo troppo invadente, gli inquinatori, i bracconieri. Come definirebbe il rapporto del popolo italiano col suo ambiente naturale?

Una definizione è complessa. Di sicuro l’atteggiamento complessivo degli italiani è molto migliorato nei confronti dell’ambiente naturale. Ci sono molto più attenzione, amore e affetto. Secondo me siamo ancora troppo distratti dai nostri cellulari, televisori e computer: ci tengono troppo lontani dalla Natura; anche quella intorno, vicina a noi. Per esempio non chiamiamo più per nome gli alberi, non conosciamo le specie che pure ci circondano. Però, complessivamente, molti più italiani di prima vanno a camminare e a correre nella Natura. I bracconieri ci sono, ma sono diminuiti di numero. Io ero già in servizio alla fine degli anni ’70, e in quegli anni bisognava “inseguire” i bracconieri, che erano piuttosto numerosi. Adesso questo fenomeno è abbastanza diminuito. Però c’è la cattiva abitudine di voler arrivare comunque e dovunque in automobile. Questo crea un danno, un inquinamento: non solo in termini di gas ma anche di rumore. Insomma, io credo che valga proprio la pena di tornare a camminare.

Il Ministro dell’Ambiente è un suo collega: un ex generale del Corpo Forestale dello Stato. Come ha accolto la nomina di Sergio Costa?

L’ho festeggiata. Sergio Costa è un galantuomo. L’ho conosciuto in servizio. Si è distinto per una grande passione, un grande senso etico e di rispetto della Natura. La sua battaglia per l’ambiente l’ha condotta da almeno trent’anni, e quindi la sta semplicemente continuando come ministro. Fare il ministro oggi in Italia è un lavoro difficilissimo. Non lo invidio. Però siamo in buone mani.

Articoli collegati

Al via la COP16 sulla desertificazione a Riyad

Giovanni Pierozzi

COP29: riassunto della trama di Baku

Tiziana Tuccillo Giuliano Giulianini

La corsa contro il tempo delle rinnovabili