Foto: FAO/Sven Torfinn
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Locuste: la piaga che flagella il corno d’Africa innescata da un ciclone

La più devastante invasione di locuste degli ultimi decenni sta imperversando su campi agricoli e pascoli di Kenia, Etiopia, Somalia e paesi confinanti. La FAO ha diramato un allarme sul fenomeno, innescato da un recente ciclone, che potrebbe mettere in pericolo la sicurezza alimentare di milioni di persone.

Le cavallette sono insetti solitari e generalmente innocui, distribuiti in diverse regioni del pianeta e caratteristici anche delle nostre campagne. Nelle regioni aride dell’Africa esiste una specie particolare, parente dell’insetto che conosciamo in Italia, chiamata locusta del deserto. In particolari condizioni climatiche e ambientali, di solito dopo pesanti piogge, si può innescare un meccanismo biologico che porta l’insetto a cambiare, nella forma e nel comportamento: da individui solitari le locuste si aggregano in sciami di milioni di esemplari e diventano quella che la FAO definisce la specie migratoria infestante più pericolosa del mondo. O più semplicemente: una piaga. Percorrendo pascoli, coltivazioni e foreste, uno sciame di piccole dimensioni può mangiare in un giorno l’equivalente di quanto basterebbe per sfamare 35 mila uomini. Negli anni ’30, ’40 e ’50 del ‘900, l’Africa è stata flagellata continuamente da questi sciami, ma negli ultimi decenni il fenomeno si è presentato molto raramente. Ora però l’emergenza è scattata di nuovo: Etiopia e Somalia sono colpite dalla peggiore infestazione di locuste degli ultimi 25 anni; e il Kenia sta subendo un’invasione che non è paragonabile a nessun’altra degli ultimi 70 anni.
Per conoscere dettagli, possibili conseguenze economiche e sociali di questa situazione critica, “Ecosistema”, il programma radiofonico di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana, ha raggiunto telefonicamente Sergio Innocente, esperto regionale per la prevenzione e risposta alle emergenze della FAO, che in questo momento si trova in Kenia per monitorare la situazione.

Dove si trova e che cosa sta facendo in questo periodo?

Sono in Kenya, a Nairobi, all’interno del compound delle Nazioni Unite. Dalla fine dell’anno scorso abbiamo costituito all’interno dell’ufficio regionale un centro per il controllo delle locuste che dà supporto ai paesi impegnati nella risposta all’emergenza.

Quali sono questi paesi? Quanta parte del Corno d’Africa è interessata da questa invasione? Qual è il carattere di eccezionalità? Abbiamo letto che da anni non si vedeva qualcosa del genere da quelle parti.

È sicuramente la peggiore invasione di cavallette che si sia mai vista nella regione da decenni. In Somalia ed Etiopia qualcosa di simile si era visto 25 anni fa, ma negli altri paesi dov’è presente l’invasione, come il Kenya, non si vedevano cose di questa portata da 75 anni. Il problema continua ad estendersi: prima parlavamo di Kenya, Somalia ed Etiopia; già da un po’ stiamo riportando la presenza di cavallette anche in Gibuti ed Eritrea; ed è notizia di pochi giorni fa che sono state avvistate anche in Uganda e al confine con la Tanzania.

Quali sono i danni subiti dalle popolazioni. Immaginiamo quelli per l’agricoltura; ma ci sono anche danni collaterali?

Assolutamente! Le cavallette non fanno distinzione: consumano sia campi i coltivati che i pascoli. Al momento, data la tempistica dell’arrivo di questa invasione, non abbiamo evidenze di grossi danni agli agricoltori; ma ci sono già dei rapporti abbastanza consolidati di danni ai pascoli. Il vero problema è che a marzo e aprile, in quasi tutti i paesi della regione, comincia la nuova stagione delle piogge e quindi il nuovo ciclo colturale per i cereali. È per questo che stiamo continuamente e lasciando allerte alla comunità internazionale: la nostra forte paura è che, se questa invasione non verrà controllata, quando gli agricoltori pianteranno le nuove colture potremmo veramente vedere dei danni che arrivano al 100% di distruzione dei campi coltivati. E questo sta succedendo in un’area già fortemente colpita dagli shock naturali. Non dimentichiamo che, se prendiamo in considerazione soltanto i tre paesi più colpiti, l’Africa orientale ha in questo momento una popolazione vicina ai 12 milioni di persone già esposta all’insicurezza alimentare.

Quali sono le cause dell’esplosione demografica di questo animale?

Nell’Africa orientale, in particolare, quest’invasione è stata provocata o accentuata dalle condizioni metereologiche particolarmente favorevoli che abbiamo avuto da ottobre ad oggi. Ma c’è stato un evento che ha un po’ cambiato la situazione: il ciclone che si è abbattuto sulle coste della Somalia all’inizio di dicembre. Le condizioni metereologiche favorevoli si sono estese anche all’inizio dell’anno che al contrario, in genere, è periodo di seccagna, qui in Africa orientale. Questo ha fatto sì che ci fosse una proliferazione degli insetti, e i risultati sono quelli che vediamo oggi.

Queste sono chiamate “locuste del deserto”. È una specie diversa da quelle che esistono in Europa e in Italia. Ma questo “innesco” del fenomeno può succedere anche alle nostre latitudini?

In effetti abbiamo visto che nei secoli passati le migrazioni di cavallette del deserto possono anche raggiungere le coste europee, ma non è una trasformazione delle cavallette che vivono normalmente da noi. Quindi questa è una specie particolare di cavallette che vive prevalentemente in aree secche, aride e semi aride. In determinati periodi favorevoli assume questo stato gregario, diventa migratoria, e si verificano le invasioni che si possono vedere ora in Africa orientale, ma che sono molto comuni nella penisola araba, nella parte occidentale dell’Asia, e sono state di grande importanza anche nell’Africa occidentale. L’ultima, pochi anni fa in Madagascar. Quindi, l’areale distruttivo di queste invasioni è abbastanza vasto, ma sono delle specie particolari di locuste.

Quali sono i programmi e le misure a contrasto di questa emergenza, che state mettendo in atto? Abbiamo letto un appello della FAO a mettere fondi per contrastare questo fenomeno. Quali sono però le misure sul campo?

C’è da dire che la FAO non ha cominciato a lavorare da quando abbiamo lanciato l’appello: già da mesi stavamo supportando i governi, fornendo previsioni, allerte precoci, avvisi sulla tempistica, ed anche la portata e la localizzazione delle invasioni e delle zone di riproduzione. La diffusione del parassita e le dimensioni delle infestazioni sono talmente oltre la norma che in pochi mesi sono riuscite a portare al limite le capacità delle autorità locali e nazionali, e quindi la FAO ha diramato questo appello. È un appello rilasciato tre settimane fa, basato su delle stime molto prudenti, in cui la FAO chiede 76 milioni di dollari per sostenere con urgenza, sia le operazioni di controllo, che avvengono con pesticidi distribuiti per via aerea e terrestre, sia soprattutto per cominciare a pianificare delle misure di protezione dei mezzi di sussistenza nei tre paesi più colpiti: i mezzi di sussistenza dei piccoli agricoltori e dei piccoli allevatori che, se il controllo non dovesse portare i risultati auspicabili, saranno sicuramente le comunità più danneggiate dalla presenza di questo parassita.

Vi aspettate che questa calamità possa avere ripercussioni anche a livello internazionale, sulle migrazioni, se non fosse contrastata a dovere in questi mesi di emergenza?

Se non sulle migrazioni a livello internazionale, l’Africa orientale è una regione molto colpita da migrazioni interne ai vari paesi: con gruppi e comunità che qui chiamano IDP, Internal Displaced People, che vengono danneggiati e lasciano le loro aree per andare verso campi di rifugiati “interni”; dove riescono a trovare servizi e accesso ai beni di prima necessità. Quindi ci sono delle migrazioni interne ai paesi che sicuramente shock di questa portata possono incrementare. E ci sono migrazioni che vanno al di là dei confini dei vari paesi: io non so se le migrazioni possano arrivare fino all’Europa, ma sicuramente in questo momento l’Africa orientale ha più di 5 milioni di persone “rifugiate”, quindi che si sono mosse da un paese a un altro. Per cui, sì: se il problema non venisse controllato, e se le popolazioni fossero fortemente danneggiate, non sarebbe da escludere che ciò possa provocare dei movimenti all’interno e attraverso i confini nazionali.

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