Ecosistema

L’ultimo volo di Kate

Un altro raro avvoltoio capovaccaio ritrovato morto in Sicilia. Bracconaggio? Veleno? L’esperto: bracconaggio, elettrodotti e veleni contro topi e cani mettono in pericolo la sopravvivenza dei rapaci italiani. I bracconieri devono pagare sanzioni molto di più alte e perdere per sempre la licenza; e va vietata la caccia a settembre e ottobre: quando c’è il massacro degli uccelli migratori.

A metà gennaio il Centro Rapaci Minacciati che ha sede nella provincia di Grosseto, ha dato notizia della morte in Sicilia di una femmina di capovaccaio di nome Kate. Il giovane esemplare di questa rara specie di avvoltoio italiano era nato e cresciuto presso il centro, ed era stato liberato la scorsa estate in un parco naturale vicino Matera, in vista della migrazione verso l’Africa. Gli ornitologi l’hanno seguita per mesi grazie a un GPS, ma all’inizio dell’anno dopo giorni di ricerche l’hanno ritrovata in un terreno impervio nella Sicilia occidentale. Le cause della morte prematura sono ancora incerte, ma il timore è che si tratti di un nuovo caso di bracconaggio, evento non raro per questa regione dell’isola.
“Ecosistema”, il programma di Earth Day Italia in onda su Radio Vaticana, ne ha parlato con Guido Ceccolini, l’ornitologo che ha allevato e liberato Kate, presidente dell’Associazione Centro Rapaci Minacciati Onlus.

Presidente c’eravamo conosciuti poco più di un anno fa parlando di Bianca e Clara, una storia simile a questa. Ora è successo questo fatto luttuoso a Kate, un altro esemplare di capovaccaio. Può raccontare la sua storia? Come è nata, e come è morta?

Kate era una giovane capovaccaio, nata nel nostro centro nel 2018. È stata liberata a fine luglio in provincia di Matera, nel Parco Naturale della Murgia Materana. Aveva cominciato a girovagare nell’area di liberazione, dove c’è un carnaio, un punto di alimentazione in cui l’animale poteva mangiare. È rimasta in zona per parecchio tempo; poi è partita verso sud ed è arrivata in Sicilia ad ottobre. Invece di fare come tutti gli altri, cioè migrare in Africa “saltando” il tratto di mare dello Stretto di Sicilia è rimasta sull’isola. Ha cominciato a percorrere su e giù la costa occidentale della Sicilia. Naturalmente cercava del cibo. Si fermava di solito dove c’erano dei pastori, degli animali morti, oppure delle placente (il capovaccaio si nutre di carcasse, nda.). Nel suo ultimo viaggio è andata dal trapanese verso sud; all’altezza di Licata ha smesso di muoversi. La seguivamo passo passo con un GPS applicato sulla schiena, quindi ogni giorno potevamo sapere dove si trovasse e quali fossero i suoi movimenti. A quel punto abbiamo allertato degli amici siciliani, che già la seguivano per sapere dove fosse e se avesse problemi. Purtroppo dopo una ricerca approfondita l’hanno trovata.

Da quanto ho capito siete in attesa delle analisi per capire la causa della morte. Quale potrebbe essere?

Questo animale è stato trovato in una zona dove non ci sono né linee elettriche né pale eoliche, per cui questi due fattori sono da escludere. È stata trovata completamente spolpata, perché probabilmente altri rapaci se ne sono cibati. Da un primo esame radiografico non risultano pallini (da caccia, nda.). Questo però non vuol dir niente, perché per esempio un pallino potrebbe anche colpire il cuore e cadere, o venire ingerito dai rapaci che se ne nutrono. Un’altra causa potrebbe essere l’aver mangiato un boccone avvelenato, o un topo avvelenato. Perché c’è gente che mette in giro questi anticoagulanti per uccidere i topi, i quali, una volta che sono morenti, escono all’aperto e i rapaci facilmente se ne possono cibare. Oppure [si può essere trattato di] un boccone avvelenato messo apposta per uccidere i cani vaganti. Insomma le cause possono essere tante. Ma solitamente, in quell’area (la Sicilia occidentale, nda.), la causa principale è che gli hanno sparato.

Abbiamo nominato due grossi motivi di minaccia ai rapaci italiani, tra l’altro illegali: veleno e bracconaggio. Quali sono i rapaci minacciati? Oltre al capovaccaio, di cui le chiedo anche una descrizione, quali sono gli altri rapaci rari e in via d’estinzione particolarmente minacciati in Italia?

Il capovaccaio è un piccolo avvoltoio con un’apertura alare di 1,70m. È molto particolare e “strano”: bianco e nero come una cicogna; ha la testa gialla, il becco nero e le zampe rosa. I giovani come Kate, per i primi quattro anni partono da un colorazione molto scura, marrone; per poi pian piano diventare bianchi e neri. Una volta era abbastanza comune in Italia: dalla Sicilia fino alla Liguria era abbastanza comune lungo il versante tirrenico. Poi dagli anni ’70, con il boom della caccia, le trasformazioni agricole (diminuzione della pastorizia, industrializzazione dell’allevamento, nda.), l’uso di veleni come il DDT, man mano è scomparso fino a diventare una specie rarissima. In Italia attualmente ne contiamo circa dieci coppie, non di più; di cui sette più o meno in Sicilia, e tre sul continente. Nella penisola ci sono soltanto due coppie in Basilicata e una coppia in Calabria.

Tra le altre specie di rapaci minacciate c’è l’aquila di Bonelli, che in Italia è rimasta praticamente soltanto in Sicilia. È gravemente minacciata sia perché viene spesso uccisa dagli spari dei bracconieri, sia perché spesso va a posarsi su piloni pericolosi rimanendo folgorata. Poi c’è il disturbo dei siti di nidificazione (l’invadenza di turisti, escursionisti, fotografi o altre persone nel periodo riproduttivo, nda.). Ci sono veramente tanti motivi per cui anche questa specie è sull’orlo dell’estinzione. Poi abbiamo i grifoni (altra specie di avvoltoio, nda.): fortunatamente sono tornati in Italia dov’erano completamente estinti, a parte la Sardegna dove erano rimasti una ventina di esemplari. Sono stati fatti dei progetti di ripopolamento per cui, anche se il grifone resta una specie rara in Italia, con circa 4-500 esemplari in totale, è ritornata in Friuli, in Abruzzo grazie a un progetto di reintroduzione; c’è qualche coppia in Basilicata e diverse coppie nel Parco dei Nebrodi (in Sicilia, nda.). In Sardegna la specie stava diminuendo; anche lì sono stati fatti dei progetti, di cui anche uno in corso, per il ripopolamento: cioè prendendo avvoltoi da altre nazioni per liberarli in Italia. Poi c’è il gipeto. Qui abbiamo una storia di successo: nel senso che sulle alpi era completamente estinto, e con un progetto che va avanti dal 1973, e moltissimi esemplari reintrodotti, si è ritornati a una situazione positiva con un certo numero di coppie. Comunque sono tutti animali che risentono dell’avvelenamento, delle linee elettriche pericolose e del bracconaggio.

Ma il principale fattore di minaccia, specialmente per gli avvoltoi, è la mancanza di cibo. Gli animali selvatici sono praticamente prerogative dell’uomo, perché i cinghiali si spara e vengono portati via dall’ambiente naturale, e così accade a caprioli, ecc. Praticamente è quasi impossibile che animali di grossa taglia muoiano in natura e possano essere oggetto di alimentazione. Gli avvoltoi dunque si mantengono solitamente con gli animali domestici che muoiono; ma purtroppo delle norme europee, esagerate dal punto di vista veterinario, fanno sì che molti animali vengano sotterrati, persino se rimangono folgorati. Se un fulmine cade su un certo numero di esemplari, questi invece di essere lasciati in natura, a disposizione degli animali selvatici, vengono solitamente portati via, sotterrati o inceneriti. Insomma si fanno delle operazioni completamente assurde. Come si può compensare questa mancanza di cibo? Con la creazione di carnai: cioè delle aree recintate dove i pastori e chi dispone di animali morti (ovviamente di morte naturale, non certo per malattie gravi) possano portarli e metterli a disposizione degli avvoltoi. Abbiamo chiesto al Ministero dell’Ambiente di creare almeno un carnaio in ogni parco nazionale; ma non ci hanno neanche risposto. Il Ministero dell’Ambiente si è disinteressato completamente dell’argomento.

Ovviamente l’ipotesi peggiore è quella del bracconaggio. Togliamoci subito il dubbio: è possibile scambiare un capovaccaio, un’aquila di Bonelli o un altro rapace con una specie cacciabile e sparargli per errore?

Non è possibile nella maniera più assoluta. Un bracconiere può confondere una cicogna con un capovaccaio per il colore, o con un’aquila minore perché è bianca e nera anche lei; e così gli avvoltoi come il grifone (tutte le specie nominate sono protette dalla legge contro la caccia, nda.). Sono talmente differenti: grandi, enormi, che nessuna specie cacciabile in Italia è di quelle dimensioni. Quindi non c’è dubbio che chi spara a questi rapaci lo fa apposta; volutamente. Non può essere un errore.

In queste settimane è in discussione un piano nazionale anti bracconaggio. Lo sta mettendo a punto il Governo con il supporto delle associazioni ambientaliste. Poi dovrebbe arrivare in Parlamento per definire le contromisure. Che cosa servirebbe per contrastare effettivamente la piaga criminale del bracconaggio in Italia?

Prima di tutto le sanzioni dovrebbero aumentare enormemente. Non si possono sentire notizie come quella che a un bracconiere sono stati trovati 650 uccelli di specie protette e gli sono stati fatti mille euro di sanzione. Questa cosa non è possibile: le sanzioni devono essere proporzionate al valore ecologico dell’animale abbattuto. Più la specie è rara e più uno deve pagare.

Per esempio?

Faccio l’esempio del capovaccaio perché si può fare un conto veramente preciso. Allevare, far crescere, liberare in natura e seguire un capovaccaio costa almeno 30 mila euro. Se un bracconiere gli spara, come è successo a Clara nel trapanese (nel 2018, nda.) e viene preso, non può pagare mille euro: ne deve pagare 30 mila. In più, per il fatto di uccidere specie protette di questo genere, gli dovrebbe essere tolta per sempre la licenza di caccia. Perché non può essere considerato un errore: è volutamente un atto di bracconaggio, al cento per cento.

Per quanto riguarda il piano anti bracconaggio, sono d’accordo che vengano aumentate le sanzioni (è uno dei provvedimenti previsti, nda.). Occorre assolutamente che chi deve fare la sorveglianza venga spinto ad agire con più frequenza, con più interventi sul territorio; perché molte volte, specialmente in Sicilia, non viene sanzionato nessuno. Nel trapanese, a fronte di un bracconaggio diffusissimo, vengono elevate sanzioni ridicole: sono numeri assurdi rispetto al bracconaggio effettivo che c’è in quelle aree. Quindi: aumentare i controlli e le sanzioni; ma l’altra cosa importante, di cui non si parla mai, è che va chiusa la caccia a settembre e ottobre. La caccia cosiddetta “alla migratoria”, cioè agli uccelli migratori dal nord Europa vanno in Africa passando per l’Italia. Le specie protette vengono massacrate da questi sparatori, che non pensano ad altro che a uccidere qualsiasi animale voli. Nei centri recupero arrivano continuamente animali protetti “sparati”; quindi la quantità di uccelli protetti abbattuta è enorme (quelli che arrivano nei centri recupero sono una piccola percentuale, nda.) e non si può fare a meno di chiudere la caccia a settembre ottobre.

Qual è il comportamento di questi capovaccai? Che cosa fanno quando li liberate? Come avviene la migrazione?

Quando li liberiamo (nel 2019 al Parco della Murgia Materana ne abbiamo liberati otto) all’inizio restano 10-15 giorni o un mese nell’area di rilascio. Si ambientano: cercano di capire dove sono. Per loro diventa il sito di nascita: anche se sono nati nel nostro centro di riproduzione (in Toscana, nda.), per il fatto di essere liberati e poter volare considerano quella come l’area di nascita. Dopodiché cominciano a migrare: scendono verso sud; dalla Sicilia “saltano” in Africa; superano il Sahara e si fermano nella fascia sub sahariana: in Mali e in Niger. Questa è la zona frequentata dai capovaccai italiani. Rimangono lì per almeno due anni. Nell’estate successiva al terzo anno tendono ad andare verso l’Algeria, e a rimanere nel nord dell’Algeria: nell’Atlante, vicino al Mediterraneo. Quando comincia l’autunno-inverno tornano in Niger. Al quarto anno (in primavera, nda.) ritornano in Italia.

Nel 2019 Sara e Tobia, liberati nel 2015, sono tornati in Italia. Sara è andata in Basilicata, più o meno nell’area dov’era stata liberata; mentre Tobia ha passato molto tempo in Calabria, esattamente nella stessa valle, anzi nello stesso posto, dove era stato liberato. Questi due animali poi a settembre sono tornati in Africa. Quando in età avanzata, ad almeno cinque o sei anni, iniziano a riprodursi arrivano in Italia: formano le coppie; nidificano; fanno due piccoli all’anno; e poi con i giovani tornano in Africa. E ricominciano questo andirivieni tutti gli anni. Purtroppo, a causa di mille pericoli durante la migrazione e nelle aree dove nidifica, [il numero dei capovaccai italiani] non riesce a salire. Liberando giovani noi cerchiamo di aumentare il numero di coppie per compensare queste carenze, queste mancanze, e questa mortalità elevata

Che progetti avete in atto per salvaguardare questa ed altre specie?

Attualmente il CERM ha il proprio progetto di riproduzione in cattività del capovaccaio, che manda avanti dal 1993. I giovani che nascono, poi vengono liberati nel sud Italia. Negli ultimi anni abbiamo avuto un maggior successo riproduttivo, ma fino a qualche anno fa non riuscivamo a liberare più di uno o due giovani. Ora siamo arrivati anche a otto giovani in un anno. Aumentando il numero di animali liberati, aumenta quindi la possibilità di ottenere i risultati positivi. È in corso anche il progetto comunitario “Life Egyptian Volture”, “Progetto capovaccaio”, che prevede una serie di azioni che ricalcano quello che abbiamo fatto per anni: cioè la riproduzione in cattività; la sorveglianza dei pochi nidi perché non vengano disturbati; la liberazione dei giovani; l’attivazione dei carnai che sono utilissimi per sostenere la popolazione di avvoltoi in Italia; il controllo maggiore dell’attività di bracconaggio; e anche un controllo antiveleno con unità cinofile, per quanto riguarda appunto lo spargimento di bocconi avvelenati nelle aree frequentate nella capovaccaio. Questo progetto non è solo italiano: anche nelle isole Canarie c’è una popolazione di capovaccai, leggermente diversi nelle dimensioni: è una sottospecie diversa dalla nostra, che ha dei problemi simili. Altro obiettivo del progetto è la messa in sicurezza delle linee elettriche: cioè l’isolamento di chilometri di linee elettriche nelle aree dove il capovaccaio nidifica o che frequenta.

Articoli collegati

Altri animali: il cinema racconta una storia di veterinari di frontiera

Leggere la Scienza… anche a fumetti

Giuliano Giulianini

Tifoni e tempeste flagellano le Filippine

Tiziana Tuccillo Giuliano Giulianini