Al momento responsabile di un terzo delle emissioni climalteranti, grazie alle tecnologie e a un cambiamento nelle scelte dei consumatori, l’agricoltura può evolvere in strumento di resilienza al climate change.
di Giuliano Giulianini e Giovanni Pierozzi
Durante il XVI “Forum Internazionale dell’informazione per la salvaguardia della natura” organizzato da Greenaccord Onlus, abbiamo intervistato Maria Michela Morese, leader del Team Energetico e responsabile senior delle Risorse Naturali presso l’Ufficio della FAO sui Cambiamenti Climatici, la Biodiversità e l’Ambiente.
Nel suo intervento al convegno, Morese ha citato le filiere agro-alimentari come bacino di ricerca importante per trovare soluzioni al cambiamento climatico, dato che il 30% dell’energia utilizzata a livello globale è destinata alla produzione agricola, la maggior parte derivante da combustibili fossili. Altri temi sul tavolo: lo spreco alimentare, l’innovazione per rendere l’agricoltura resiliente, e il cambiamento necessario da parte dei consumatori nelle scelte degli alimenti da acquistare, che influiscono direttamente sull’impatto ambientale del settore agricolo lungo tutta la filiera.
Ha iniziato il suo intervento citando un dato: il 30% dell’energia globale prodotta è destinato all’agricoltura. Che cosa implica questo per l’ambiente?
Le filiere agro-alimentari sono di grandissima importanza e possono essere considerate come un punto di riferimento per offrire delle soluzioni al cambiamento climatico. Purtroppo il 30% dell’energia citata, usata nelle varie fasi delle filiere agro-industriali, proviene ancora da combustibili fossili. Questo comporta un ammontare di emissioni molto importante.
Un terzo del cibo globale prodotto viene sprecato; ci sono miliardi di obesi a fronte di centinaia di milioni di denutriti: sembrerebbe solo un problema di “logistica”, oppure le difficoltà a raggiungere l’obiettivo “fame zero” sono anche economiche e politiche?
Questa è una problematica che ha varie sfaccettature, un po’ come lo sviluppo sostenibile o la sicurezza alimentare, poiché sono tanti gli argomenti che le influenzano.
In questo caso l’alimentazione consiste anche in un cambio di comportamento: il cosiddetto behavioural change. Se un terzo del cibo viene gettato, riguarda certamente un comportamento sbagliato del consumatore, ma anche la carenza di sistemi di refrigerazione per permettere un trasporto sicuro dalla produzione al mercato, e il mantenimento della qualità. Ovviamente, lo spreco del cibo comporta anche lo spreco dell’energia che è stata necessaria per produrlo. Perciò, sì! Le difficoltà riguardano anche vari ambiti economici e politici.
Nella sua relazione ha fatto riferimento al “caso delle banane”, come esempio di prodotto che comporta implicazioni ambientali e sulla salute.
Per fare in modo che un prodotto come le banane arrivi intatto dai paesi produttori ai paesi importatori, per essere poi venduto sul mercato, le buste di plastica in cui sono inserite vengono riempite di pesticidi. Così arrivano nella loro interezza, ma il problema è capire quanto questo possa impattare sulla sicurezza alimentare del prodotto. Inoltre, le banane sono uno dei tanti prodotti di consumo su cui viene attuata questa prassi: soprattutto per quelli che provengono da lontano.
Lei ha detto che l’agricoltura può essere una soluzione del climate change e del problema ambientale. In che modo?
Assolutamente si, ed è questo uno dei messaggi più importanti che la FAO vuole portare avanti con grande impegno. È importante rendere i sistemi agro-industriali sempre più efficienti, resilienti e sostenibili, nella prospettiva che la popolazione globale raggiungerà i 10 miliardi entro il 2050, e saliranno le richieste di energia, risorse idriche e naturali. L’impegno internazionale sulle filiere agro-industriali è decisivo per avere impatti positivi in termini di emissioni, sviluppo sostenibile ed efficienza.
Quali sono le emergenze alimentari del nostro presente?
Il nostro ruolo nelle sfide alimentari è far comprendere quali sono le minacce nelle filiere in corso, ma anche capire le potenzialità dei paesi per sviluppare un percorso di sostenibilità, e lo facciamo sia sostenendo politiche corrette che implementando in modo concreto queste realtà.
Può fare degli esempi?
Un esempio è il ruolo che abbiamo avuto in Ruanda e Zambia: abbiamo fatto valutazioni di sostenibilità verso alcune filiere in cui erano presenti dei residui agricoli. Abbiamo capito come evitarne lo scarto e riutilizzarli come risorsa: in questo caso residui per la produzione di pellet e altre forme di biomassa, da utilizzare per far funzionare sistemi di cottura più sostenibili, che riducessero l’impatto sulla salute di chi cucina, in quei paesi soprattutto donne e giovani.
In Ruanda il riutilizzo di questi residui ha permesso l’accesso al 33% in più di stufe avanzate; un numero molto grande in un paese come questo, che per cucinare fa un uso importante di risorse naturali, come il legname verde.