Nel centenario dell’istituzione del vincolo idrogeologico e forestale, Simonetta Ceraudo, presidente dell’Ordine dei Geologi del Lazio, traccia un bilancio del passato e indica le urgenze di un Paese ancora troppo soggetto a frane, dissesti e alluvioni.
Geologi, istituzioni, ricercatori e rappresentanti di enti scientifici si sono riuniti a convegno a Roma per celebrare i cento anni della cosiddetta Legge Serpieri che dal 1923 tutela foreste e territori a rischio idrogeologico. Il convegno, dal titolo “Vincolo idrogeologico e forestale 1923-2023: applicazione, gestione, prevenzione – stato dell’arte e prospettive future” è stato moderato dalla Presidente dell’Ordine dei Geologi del Lazio, Simonetta Ceraudo, che a margine dei lavori ci ha rilasciato questa intervista, riassumendo alcuni dei temi discussi durante la giornata.
In che contesto è nata la Legge Serpieri?
Sicuramente in un contesto ambientalmente diverso da quello odierno. La legge tendeva a porre un vincolo di tutela su quei territori che, per opera dell’uomo, avrebbero potuto subire dei dissesti. Per evitarlo Serpieri, che era sottosegretario all’agricoltura, decise di promulgare questa norma per cercare di porre un freno agli interventi sul territorio, anche con delle prescrizioni: prima di procedere con un’opera nelle aree sottoposte a questo vincolo, si doveva richiedere l’autorizzazione. Per tantissimo tempo sostanzialmente la norma è rimasta così… probabilmente per molto tempo anche disattesa. Infatti, se vediamo come è stato poi utilizzato il territorio, alla luce degli eventi che si verificano ogni anno, sappiamo che in molte aree questo vincolo purtroppo è stato totalmente disatteso.
Dal convegno è emerso che questa legge è nata più come un vincolo “paesaggistico”, estetico, per preservare un panorama che già si immaginava in pericolo; mentre adesso ne avvertiamo l’esigenza eco-sistemica.
Le figure professionali che c’erano allora erano diverse da quelle di oggi. La figura del geologo ancora non era stata istituita a tutti gli effetti: l’Ordine dei Geologi in realtà nacque nel 1963. Quindi le figure che potevano operare sul territorio (nel 1923, ndr.) erano degli esperti, dei tecnici, che probabilmente avevano una conoscenza più ampia: non c’era il geologo tout-court, ma un geologo che magari si occupava più che altro di scienze naturali, e aveva una visione più ampia del sistema. Perciò quella formula estetica di cui lei parla, in realtà va vista in questo senso: si guardava l’insieme della situazione geologica ma, soprattutto, dell’ambiente boschivo, naturalistico e paesaggistico. Con il passare del tempo le figure professionali si sono specializzate – appunto il geologo, il forestale, l’agronomo e via dicendo – e si è cercato di porle in questa norma anche in base a come dovessero operare sul territorio. Da qui l’esigenza, nel tempo, dei regolamenti attuativi per restituire dei rapporti tecnici specialistici. Oggi per dare un nulla osta al vincolo servono le relazioni del geologo e del forestale, e l’ingegnere che dà il suo contributo. Quindi, anche da questo punto di vista, si è diversificato il modo in cui i tecnici possono operare sul territorio; e come gli enti territoriali possono usufruire di queste prestazioni, sostanzialmente esterne.
Come possiamo intervenire oggi sul territorio? Con quali strumenti? Ovviamente la tecnologia ha fatto dei grandi salti in questi cento anni.
Sì. Alla luce delle evoluzioni tecnologiche, grazie all’utilizzo dei satelliti, dei droni e dei voli fatti appositamente per i rilievi territoriali, possiamo avere una visione diversa, che sicuramente non avevano agli inizi del secolo scorso. Questo è un grandissimo vantaggio; un grandissimo contributo a supporto dei tecnici. In realtà è un supporto anche per gli enti, per i presìdi che dovremmo avere sul territorio, al di là della prestazione del singolo, anche per verificare come il cittadino usufruisce del bene comune, e per evitare quegli “sfregi” che a volte abbiamo sotto gli occhi. Gli strumenti tecnologici ci mettono a disposizione un livello di conoscenza molto approfondito. Banalmente, anche guardando le mappe di Google possiamo entrare nel dettaglio di un’area, fin quasi a poter leggere le targhe delle auto, o contare i chiusini di una strada. Questo ci permette di avere uno strumento di pianificazione molto spinto, dal punto di vista tecnico. Ricordiamo sempre quello che dovrebbe essere anche un obiettivo futuro di utilizzo del suolo: evitare un consumo eccessivo, laddove non ce ne sia l’esigenza; puntare sulla rigenerazione urbana e sull’economia circolare; riutilizzare ciò che già esiste, prima di intervenire sul territorio con nuova edilizia e cementificazione. Evidentemente un occhio dall’alto, che avverta che sul territorio si sta usufruendo oltre il dovuto di spazio che dovrebbe essere lasciato alla naturalità, è sicuramente un vantaggio per noi tecnici. Vantaggio che anche regioni, province e comuni possono sfruttare come strumento aggiuntivo di pianificazione e studio del territorio.
State giustamente festeggiando i cento anni di questa importante legge. Però dal convegno è anche emerso che servono degli adeguamenti dal punto di vista normativo. Quali?
Il primo adeguamento necessario, obbligatorio, sono le perimetrazioni. Abbiamo perimetrazioni del vincolo che, in molti casi, sono esattamente quelle del secolo scorso, fatte in base alle mappe catastali che però sono cambiate. Sono cambiate anche le esigenze di pianificazione e di modalità di intervento sul territorio. Quindi è obbligatorio fare una riorganizzazione di questo vincolo. Per questo la Regione Lazio, durante il convegno, ci ha mostrato le strategie che metterà in essere per cercare, in un paio d’anni, di sopperire a questa mancanza e riperimetrare il vincolo in tutte le aree dove obiettivamente oggi non ha più senso che esista. Abbiamo zone urbanizzate che oggi sono “a vincolo”. Quando la norma impone un intervento, e occorre chiedere un nulla osta in un’area che oggi è già edificata, risulta una stortura: una perdita di tempo per i tecnici, che devono comunque produrre una documentazione inutile, perché si interviene in un territorio già urbanizzato dove non c’è più il concetto iniziale di tutela di un bosco o di una naturalità esistente. Questi sono i due aspetti principali: riperimetrare, per lasciare fuori le aree che non ha senso siano sottoposte a vincolo e tenere dentro quelle dove un senso c’è ancora; e snellire le procedure di rilascio dei nulla osta al vincolo, dove necessario.
Gli interventi sul dissesto idrogeologico sono tra le voci che il nostro paese sta finanziando con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Quali sono gli interventi strutturali previsti e quali sarebbero necessari per recuperare un po’ di fragilità del nostro paese?
Ci sono diverse linee di intervento. La prima riguarda il Ministero dell’Ambiente, che aveva già una lista di zone dove intervenire; quindi i fondi del PNRR sono andati sicuramente a rifinanziare questi progetti. Poi ci sono ovviamente tutte le linee che riguardano i comuni e le province. In questi casi, ad esempio nel Lazio, è stato chiesto ai comuni di dare delle indicazioni per finanziare gli interventi più urgenti che, sui singoli territori, sono conosciuti grazie agli studi fatti in precedenza: ad esempio grazie alle mappature che riguardano i piani di assetto idrogeologico. Questo è un altro tipo di mappatura molto importante, che ci permette di individuare le aree effettivamente soggette a un pericolo idrogeologico: a rischio alluvione o a rischio di frana. In quelle aree, laddove troviamo situazioni di rischio – che interviene nel momento in cui c’è un edificato, o delle infrastrutture di importanza strategica, che fanno passare queste aree dal “pericolo” al “rischio” – i comuni sarebbero assolutamente in grado di stilare i loro elenchi. Per quanto riguarda il Lazio so che è già stato fatto un gran lavoro in tal senso. Gli interventi che si sta cercando maggiormente di seguire sono legati alle criticità dovute alle alluvioni. Si stanno controllando gli argini già esistenti per verificare la loro tenuta. Poi ci sono le casse di espansione: uno strumento necessario; perché spesso, purtroppo, si costruisce in zone che dovrebbero essere lasciare libere per permettere ai corsi d’acqua di espandersi in caso di eventi di piena. L’argine è un elemento utile, ma non si può pensare di metterne dappertutto per imbrigliare i corsi d’acqua; perché a volte la forza dell’acqua è tale che anche gli argini non riescono a trattenerla e questa fuoriesce – come purtroppo abbiamo visto nell’ultimo caso dell’alluvione in Emilia Romagna – allagando le strade e i centri urbani. Occorre prevedere invece delle casse di espansione: cioè aree non urbanizzate dove, in caso di piena, l’acqua possa fuoriuscire senza creare criticità. Si sta già facendo nel Lazio, e ancor di più in Emilia Romagna. Le altre attività ovviamente riguardano gli eventi franosi. Anche in questo caso si sta cercando soprattutto di studiare più nel dettaglio le criticità legate ai movimenti franosi. Non è semplicissimo [intervenire]; perché se si è edificato un paese con, alle spalle, una parete che soggetta a crolli o movimenti di frana importanti, la soluzione sarebbe quello di delocalizzarlo. Questo non è possibile. Si procede invece con interventi locali per cercare di rinforzare le strutture alle spalle di un’area a rischio. Però ovviamente va studiato localmente quale sia l’intervento migliore: ci sono le reti para-massi in caso di crolli, o i consolidamenti in caso di movimenti diversi. Quindi localmente si sta operando, e il PNRR sta finanziando anche questi elementi di criticità.