Marco Nicolini, esperto legale in materia di innovazione ed investimenti, analizza le nuove tendenze della finanza internazionale nella direzione della green economy e commenta le potenzialità del Recovery Plan italiano.
“Proteggere tutti i lavoratori ma non tutte le imprese”. Con queste parole il Presidente del Consiglio Draghi nel suo primo discorso al Senato ha lasciato intendere come parte del tessuto produttivo del paese dovrà cambiare, non solo per adattarsi ad un contesto sociale che la pandemia ha contributo a modificare in maniera significativa, ma anche e soprattutto per rispondere ad una esigenza di conversione ormai indispensabile per fronteggiare la grave crisi climatica in cui il nostro modello di sviluppo ci ha gettato.
È il momento di interrogarci su cosa voglia dire sviluppo sostenibile. In passato lo sviluppo economico e la tutela dell’ambiente sono stati rappresentati come concetti antitetici, e le esigenze di protezione della natura come un freno al progresso. In realtà, come ci ha più volte rappresentato anche Papa Francesco non esiste un vero sviluppo umano fuori dalla sostenibilità ambientale e sociale. In questo senso qualcosa sta cambiando. È certamente cresciuta l’attenzione che la politica sta mettendo su certi temi e anche diversi settori economici si stanno riconvertendo in chiave green, questo anche grazie ad una pressione che nasce dal basso: ad esempio al movimento dei Fridays For Future; o a quello per il disinvestimento dalle fonti fossili che, anche grazie all’impegno dei cattolici e alla spinta del Movimento Cattolico Globale per il Clima, vale circa 15 mila miliardi di dollari di asset disinvestiti.
Ma tutto il filone della finanza sostenibile si sta rivelando importante. Siamo chiaramente a un punto di svolta e, se pensiamo al nostro paese, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sebbene dal punto di vista ambientale presenti qualche lacuna importante, costituisce un’occasione unica per lo sviluppo, ovviamente sostenibile, del nostro paese. Parliamo di oltre 220 miliardi di euro che saranno distribuiti lungo tre assi principali: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale. Un percorso importante che speriamo l’intero sistema paese sia in grado di seguire.
Per approfondire questi temi EarthDay.it ha intervistato, Marco Nicolini, avvocato, partner dello Studio Orrick, tra i principali studi legali in materia di innovazione e di investimenti. Quella che segue è la versione integrale dell’intervista trasmessa nel programma “Il Mondo alla radio” su Radio Vaticana Italia.
La finanza sostenibile, quella ispirata ai cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social, Governance) che valutano l’impatto sociale e ambientale dell’attività e la governance dell’attività stessa, da tempo non può più considerarsi un fenomeno di nicchia. I fondi gestiti secondo questi principi sono in continua crescita e fanno generalmente registrare anche performance superiori agli altri. Stiamo assistendo a una reale trasformazione della finanza da questo punto di vista?
Secondo me assolutamente sì. I fattori ambientali sociali e di corporate governance riassunti della definizione ESG stanno diventando sempre più interessanti per le aziende e gli investitori. Le aziende non possono aspettarsi di attirare investimenti se non tengono conto delle questioni di sostenibilità. Secondo le stime pubblicate dalla Global Sustainable Investment Alliance, la crescita degli asset investiti, considerando gli impatti ambientali, sociali e di buon governo, negli ultimi anni è stata significativa e costante, passando dai 13.3 trilioni di dollari del 2012 a 30.7 trilioni di dollari nel 2018, con un aumento del 34% dal 2016. Ciò che la pandemia ci ha insegnato tra l’altro è che non possiamo avere una visione ristretta o a breve termine, né possiamo trascurare la sostenibilità delle nostre azioni.
Da una prospettiva intersettoriale, le aziende sono chiamate a non agire in una visione egocentrica poiché gli investitori avranno maggiore attenzione a come viene presa in considerazione la sostenibilità collettiva delle azioni. Tra l’altro gli aspetti non finanziari possono essere integrati, e ogni investitore può adottare uno o più di questi approcci secondo le proprie dimensioni, la tipologia di investitore che rappresenta, la politica di investimento adottata e il desiderio di approfondimento delle tematiche di sostenibilità. Tra questi criteri ultimamente i più adottati sono il negative streaming, che prevede l’esclusione di imprese in determinati settori controversi o paesi a rischio, l’integrazione di elementi di sostenibilità nelle analisi, nelle due diligence, e nell’engagement che implica un dialogo con imprese su questioni di sostenibilità e l’esercizio dei diritti di voto connessi alla partecipazione al capitale azionario.
Grazie al Next Generation EU arriveranno nel paese molti fondi che serviranno sia a risollevarci dalla crisi economica sia per rendere più sostenibile la nostra economia.
Il Next Generation EU è un accordo fondamentale per il futuro dell’Italia. Perché pone l’accento sul futuro delle prossime generazioni. Ci sfida a fare meglio, a fare di più, a uscire dalle logiche dei singoli decreti e dei bonus della legge di bilancio; e ci chiama a un senso di responsabilità collettiva. Oggi però c’è l’impegno a non sprecare tempo e risorse. Quando scadranno le misure di maggior tutela del lavoro la crisi occupazionale rischierà di colpire le fasce più deboli della popolazione ed è necessario indicare da subito la via per portare il paese fuori dalla crisi. C’è bisogno di una politica industriale per la transizione che sappia stimolare l’addizionalità degli investimenti delle imprese, non tema di affrontare i costi della ricerca e dell’innovazione in tecnologia, e soprattutto abbia a cuore le persone in tutte le fasi dell’educazione e della formazione professionale.
Se parliamo di innovazione l’immaginario collettivo va alla Silicon Valley statunitense, ma il contesto italiano è profondamente diverso. Nel nostro paese c’è oggi il giusto ecosistema per sostenere l’innovazione?
Probabilmente sa che opero in uno studio che opera a San Francisco e nella Silicon Valley; quindi, che cosa stiamo facendo del nostro piccolo della professione legale? Cerchiamo per esempio di dare consapevolezza per quanto riguarda l’accesso a risorse pubbliche. Abbiamo pubblicato una guida alle PMI innovative, con un particolare focus sul credito di imposta per gli investimenti sui nuovi macchinari. Per quanto riguarda l’aumento del capitale umano, stiamo collaborando con importanti player in Italia, come il consorzio Elis che si caratterizza per una valorizzazione dei giovani, dello sviluppo delle loro competenze, della loro crescita umana e professionale. Inoltre cerchiamo di stringere le maglie delle reti dell’innovazione che oggi è ancora troppo frammentata: su questo, con onore e soddisfazione, stiamo accanto a investitori istituzionali di venture capital. Primo tra tutti CDP Venture, che anche tramite il Fondo per il Trasferimento Tecnologico ha proprio l’obiettivo di creare poli dedicati all’investimento delle tecnologie più promettenti nei settori legati all’innovazione, in collaborazione con partner imprenditoriali, università e centri di ricerca.
Il nostro paese sconta ritardi strutturali che spesso hanno frenato gli investimenti. Da questo punto di vista il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza contiene gli elementi per colmare queste lacune?
Mi lasci essere fiducioso. L’Italia oggi è la maggiore beneficiaria delle risorse europee ed è uno dei paesi che ha più faticato negli ultimi 30 anni a crescere con lo stesso passo dell’Unione. Questa può e deve essere un’occasione unica per affrontare i grandi tabù del nostro paese: scuola, università, ricerca, mercato e politiche attive del lavoro, infrastrutture, produttività, contrasto alla povertà. Da un lato sicuramente si è fatto molto. Ad esempio uno dei settori più decisivi verso cui incanalare le risorse da questo punto di vista è quello dell’istruzione e della ricerca. Aumentando le risorse a disposizione di questa voce di spesa, il Governo Draghi l’ha posta come terza in ordine di rilevanza, dopo la digitalizzazione e la transizione ecologica. Però, da un altro punto di vista, sarà fondamentale presidiare con attenzione le concrete modalità con cui il Recovery Plan sarà declinato e applicato. Nella storia della nostra Repubblica, anche recente, troppe volte il fallimento ha riguardato l’implementazione, piuttosto che l’ideazione degli interventi. Quindi, se penso alla transizione ecologica, è fondamentale una profonda semplificazione delle norme in materia di procedimenti ambientali, in particolari delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale. Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunga per la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio. La rivoluzione verde auspicata per il paese passa dunque da una profonda accelerazione di tutto l’iter dei permessi, che sappia preservare le tutele ambientali senza minare però la messa a terra degli investimenti che oggi sono frenati dalla troppa burocrazia.
Il nostro modello di sviluppo si è rivelato insostenibile non solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale. Negli anni le disuguaglianze sociali si sono ampliate e cristallizzate. Questa corsa all’innovazione non rischia ampliarle ulteriormente e di lascare indietro qualcuno?
Questo rischio c’è. Però dal punto di vista dell’innovazione e dell’inclusione sociale ho anche notato che la recente pandemia sembra aver messo per il momento tutti d’accordo sulla necessità di uno Stato erogatore di maggiori servizi sociali e prestazioni sanitarie, e allo stesso tempo finanziatore della ricerca, dell’innovazione e della formazione permanente. Il dubbio che viene però spontaneo, a questo punto, è che l’obiettivo non possa essere veramente realizzato se lo Stato non si spoglia anche della sua veste eminentemente burocratica, e non si ispira decisamente ai grandi valori di moralità collettiva e di rispetto della dignità umana che hanno la loro fonte nel dettato costituzionale.
Naturalmente il recupero di valori morali non significa pensare a uno Stato creatore di monopoli che allarga oltre misura l’area dell’intervento pubblico, lasciando spazi limitati alle libere iniziative del privato. La scelta da fare dopo la pandemia non può essere più, secondo i vecchi canoni di interventismo e liberismo, tra Stato e mercato, bensì tra due tipi di Stato: uno più invasivo, per certi versi produttivistico e meno presente nel sociale; l’altro che non è alternativo al mercato, ma è pur sempre sussidiario, regolatore, distributore, portatore di grandi valori di moralità collettiva e perciò promotore sia della cittadinanza attiva, sia dell’innovazione, sia della società dell’apprendimento.
Secondo me solo quest’ultimo tipo di Stato ha la sua legittimità etica nel principio di uguaglianza, e soltanto ad esso si può affidare il compito, come dice l’Articolo 3 della nostra Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.