Economia

Riuso e solidarietà: la filiera della donazione di abiti usati.

Lo scorso anno in Italia sono state donate 124 mila tonnellate di abiti usati. Dove finiscono? Chi li preleva dai contenitori stradali? Perché finiscono nei mercatini dell’usato? L’impegno di cittadini e amministratori può aiutare l’ambiente e sostenere progetti solidali nei paesi bisognosi.

Tra i materiali che più si prestano ad essere riciclati ci sono sicuramente i tessuti. Però, mentre per il vetro, l’acciaio, la plastica, la carta e altri materie prime, la raccolta differenziata è parte di una filiera ben definita e coinvolge amministrazioni locali, nazionali e consorzi preposti, per il tessile la situazione è più variegata. Per la natura stessa dei “rifiuti”, in gran parte abiti usati, in questo caso la filiera del riciclo si incrocia fin dall’inizio con quella del riuso, coinvolgendo comuni, parrocchie, mercatini dell’usato, grandi catene ed organizzazioni solidali.
In un settore che purtroppo nel nostro paese suscita anche gli interessi della criminalità, si sente la necessità di maggiore chiarezza e migliore comunicazione sulle tappe di questa filiera di donazione/riciclo.  Riportiamo di seguito l’intervento, nella trasmissione radiofonica “A Conti Fatti”, di Stefania Tiozzo, responsabile della comunicazione di Humana People to Peole Italia, un’associazione realizza progetti di solidarietà in Africa, finanziati dalla raccolta di abiti usati in Europa.

Ascolta l’audio dell’intervista

Quali sono i numeri nazionali della raccolta di abiti usati (quanti abiti, quanta percentuale stimata) e quali sono invece quelli della vostra associazione? 
In Italia i chilogrammi dichiarati di raccolta indumenti sono 124 milioni; a livello nazionale si stima però che potrebbero essere quasi il doppio, perché c’è tutta una parte di indumenti raccolti che non viene dichiarata per varie ragioni. Nel nostro caso, facendo riferimento ai dati del 2015, la raccolta è stata di circa 19 milioni di kg, quindi la nostra fetta di mercato rappresenta circa il 15% del totale disponibile. La quantità di abiti riutilizzabili è poco superiore al 70%, quindi siamo in media nazionale perché, di norma, il 65-70% degli indumenti che vengono donati possono essere riutilizzati come tali. Questo per noi è l’obiettivo fondamentale, in un’ottica di economia circolare: lo spreco della risorsa viene meno e si riutilizza un vestito che può essere ancora utile.
Nel nostro caso questo risultato è possibile grazie alla collaborazione con oltre mille amministrazioni comunali in Italia: per la precisione sono 1098, e abbiamo oltre 5.000 contenitori in 48 province. Questo ci ha permesso, nel 2015, di sostenere e realizzare 47 progetti di sviluppo nel sud del mondo, più tutta una serie di attività a sfondo sociale in Italia: ad esempio abbiamo raggiunto 68.000 bambini e ragazzi nelle scuole con attività di sensibilizzazione ai temi della solidarietà e del riuso; abbiamo anche distribuito kit di indumenti solidali a persone in particolare stato di bisogno: 490 per il 2015.

La filiera dell’abito usato, dal raccoglitore in poi è quasi del tutto ignota al grande pubblico. Può riassumere le diverse strade che prendono i vestiti una volta donati attraverso i raccoglitori, e quali sono le economie virtuose che si mettono in moto?
Parlare di filiera è un po’ difficile, perché in realtà ci sono diverse filiere. Questa differenziazione è data dall’obiettivo dell’ente che realizza la raccolta degli indumenti usati. In Italia molti enti sono no profit, ma molti sono aziende normalissime che realizzano quest’attività per motivi lucrativi. Quindi, in realtà, risalire alle filiere è un po’ complesso però, di norma, molte cooperative hanno come obiettivo l’inserimento lavorativo dei soci; la realizzazione, poi, di interventi sociali e locali può esistere ed è molto differenziata da città a città.
Nel nostro caso la filiera è diversa. In primo luogo la filiera di Humana è totalmente interna, a controllo diretto; questo significa che, dal momento in cui posizioniamo il contenitore sulla strada in accordo con l’amministrazione pubblica, sino al risultato finale, la gestione è totalmente nostra in tutta Italia. Questo ovviamente permette un’efficienza e un controllo sulla gestione estremamente alti. Nel nostro caso, gli indumenti vengono in parte donati alle nostre associazioni consorelle in Africa che li vendono per poter poi utilizzare i fondi per realizzare i progetti attivi localmente: scuole, prevenzione sanitaria, aiuto all’infanzia, sicurezza alimentare. In Africa ci occupiamo anche di donazione di vestiti solo in casi di emergenza, per non creare assistenza, ma sviluppo.
Tutto quello che non è adeguato all’invio in Africa per caratteristiche tipiche del vestito, viene venduto in Europa, sia all’ingrosso sia al dettaglio. Per dettaglio intendo i negozi di indumenti usati: Humana Vintage e Humana Second Hand. Ne abbiamo quattro: due a Roma, uno a Torino e uno a Milano. In Europa sono 440. La vendita in questi negozi e ai grossisti ci permette di ottenere fondi che vengono utilizzati per i progetti in Africa e per le attività sociali che stiamo realizzando ormai anche in Italia.

Quello degli abiti usati è però anche un mercato che vale molto e che dunque genera economie sotterranee e zone d’ombra. In un rapporto dell’anno scorso la vostra organizzazione denunciò le implicazioni di una filiera non trasparente.
Questo è un tema che meriterebbe davvero un approfondimento, perché in Italia, storicamente, la donazione del vestito ha sempre avuto, da parte del cittadino, un mandato di solidarietà: le persone donano il vestito perché pensano di aiutare qualcuno. Purtroppo questo non accade sempre, non perché esistono aziende con un obiettivo profit ma perché non c’è comunicazione, quindi il cittadino spesso non sa a chi sta donando e gli operatori, molte volte purtroppo, sono abusivi: operatori che posizionano i contenitori senza accordo con l’amministrazione pubblica o, in alcuni casi, peggio ancora, si tratta di operatori legati anche a organizzazioni malavitose che utilizzano la raccolta degli indumenti usati per il riciclaggio di denaro. Ovviamente non si tratta della maggior parte degli operatori. Fortunatamente in Italia il panorama è estremamente positivo, differenziato per operatori e per obiettivi, per cui noi sollecitiamo sempre i cittadini a donare il più possibile, stando attenti a chi si dona.

Come possono i cittadini, ma soprattutto gli amministratori locali, instradare correttamente le donazioni di abiti per far si che la solidarietà vada a buon fine?
La responsabilità prima dell’amministrazione pubblica è quella di verificare che l’operatore a cui il servizio viene effettivamente appaltato, e quindi assegnato, abbia tutte le caratteristiche di legalità, trasparenza, rendicontabilità e tracciabilità previste dalla normativa, oltre che una reale finalità sociale. Crediamo che questo sia ciò che le persone vogliono: la raccolta degli indumenti usati ha un fortissimo risvolto ambientale (perché tutti questi vestiti non finiscono in discarica ma vengono riutilizzati con un grandissimo risparmio economico, anche per le amministrazioni pubbliche) ma ha un impatto sociale ed economico altrettanto rilevante.
Quindi l’amministrazione pubblica ha il dovere di selezionare l’operatore con estrema attenzione; al contempo l’operatore ha il dovere di posizionare contenitori che riportino tutte le indicazioni: oltre che della filiera, anche dell’ente stesso. Il cittadino, nel momento in cui inserisce gli indumenti nel contenitore, deve verificare che sul contenitore siano apposti i riferimenti di chi fa quella raccolta. Nel caso di Humana ci sono i nostri numeri di telefono e gli indirizzi fisici; non c’è, ad esempio, soltanto un cellulare o, come capita spesso, la totale assenza di riferimenti: su entrambi i lati dei nostri contenitori c’è un adesivo che rappresenta tutta la nostra filiera. In più facciamo sempre riferimento ai siti internet che dovrebbero riportare tutte le informazioni. Quindi, in realtà, il cittadino si deve un po’ attivare e, laddove dovesse avere dei dubbi, fare riferimento alla propria amministrazione comunale, chiedendo se il contenitore posizionato nella via “tal dei tali” sia effettivamente utilizzabile e affidabile.

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