Italia Nostra promuove la riscoperta del “viaggio in Italia” attraverso piccole e grandi stazioni ferroviarie da riportare al centro delle comunità locali.
In Italia ci sono più di 2000 stazioni ferroviarie. Nell’ottica della sostenibilità dei trasporti, sia le stazioni che sorgono al centro delle grandi città, sia quelle che servono paesini sperduti o crocevia nelle campagne, sono fondamentali per lo sviluppo della cosiddetta mobilità intermodale: cioè quello che combina l’auto privata al treno, al bus, alla bicicletta. Le grandi stazioni hanno conosciuto in questi anni uno sviluppo architettonico e commerciale importante; al contrario le piccole stazioni di solito hanno visto diminuire il personale e chiudere i locali di servizio come bar e biglietterie, restando in molti casi delle semplici fermate incustodite. Per recuperare questi luoghi alla loro funzione sociale è in atto la campagna nazionale #Carastazione.
Ne abbiamo parlato con Massimo Bottini, rappresentante di Italia Nostra nell’Alleanza Mobilità Dolce e dell’Associazione italiana Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI). L’intervista è stata trasmessa nel programma “Ecosistema”, rubrica settimanale di Earth Day Italia in onda su Radio Vaticana Italia.
A quando risale la costruzione di queste stazioni e in che stato sono? Che cosa possono rappresentare per il futuro della mobilità, urbana e non?
Le stazioni sono effettivamente l’hub del nuovo viaggio in Italia. Un viaggio che non è solo turistico ma di conoscenza del patrimonio italiano. Patrimonio fatto sicuramente di immobili, ma anche di una grande letteratura del viaggio e dell’accoglienza. Quindi: le stazioni come biglietto da visita delle nostre comunità; di questo buon vivere italiano. Oggi, con 150 anni di storia alle spalle (molte di queste stazioni risalgono a prima dell’unità d’Italia) queste stazioni continuano ad essere, non solo un patrimonio storico-architettonico, ma soprattutto un patrimonio sociale, di civiltà e di senso della comunità. Le operazioni condotte da RFI (Rete Ferroviaria italiana, la società del Gruppo Ferrovie dello Stato italiane che gestisce la rete, nda.) atte ad ammodernare la linea, hanno in realtà in parte sottovalutato il valore simbolico di una stazione. Oggi, realtà come Italia Nostra, AIPAI e tante altre associazioni ambientaliste, sono lì a rivendicare non solo il diritto alla mobilità ma anche il diritto a uno spazio dell’attesa, della partenza: un luogo che possa accoglierci quando ci trasferiamo da una città a un’altra; perché in questi luoghi comprendiamo effettivamente e immediatamente la misura e la qualità dei posti che raggiungiamo.
Nella campagna #Carastazione prendete la ristrutturazione della Stazione Termini di Roma come esempio di un edificio che è stato snaturato: una porta d’accesso (moderna, all’epoca) alla città eterna che ora è diventata qualcos’altro. Eppure i romani oggi la vedono come una stazione più sicura, tranquilla, moderna, “europea”, rispetto alla situazione di qualche anno fa. Quali sono i punti che criticate in questo genere di ristrutturazione?
Non si tratta di criticare dei punti. Si tratta semplicemente di prendere in considerazione l’anima dei luoghi. Visto che il paesaggio italiano è un elemento portante, sancito dalla stessa Costituzione, noi ci sentiamo di dire che nella Stazione Termini e in tante altre “grandi stazioni” (come infatti si chiama il progetto) che sono state via via concesse, la dimensione merceologica, commerciale e se vuole anche di pura pubblicità, è diventata prevalente in nome della sicurezza e dell’efficientamento di un presidio. Io credo che perdiamo di vista quella dimensione civica e sociale che fa delle nostre piazze non un semplice mercato (e del mercato abbiamo visto i limiti in questi ultimi anni decenni). Le piazze vanno salvaguardate proprio per la loro dimensione. Certe stazioni come Termini o Santa Maria Novella a Firenze sono opere d’arte architettonica: nessuno si permetterebbe mai di inserire un chiosco in una rocca o in un palazzo storico. Questo è avvenuto (nelle grandi stazioni, nda.) magari non tenendo conto che queste forme, questi spazi, nei loro vuoti restituivano anche una dimensione di civiltà, di socialità. Quando oggi ci ritroviamo in queste stazioni con i nostri bagagli, non sappiamo nemmeno più dove appoggiarli, perché non ci sono più i depositi bagagli; oppure non abbiamo il biglietto per poter accedere al binario e ci troviamo a sostare in mezzo a questi flussi [commerciali]. Credo insomma che questo non sia degno, nel 2019, di una nazione che si reputa civile, moderna, e fa proprio del viaggio in Italia la cifra della conoscenza del nostro stile e del nostro modo di essere. Va bene il rapporto con le stazioni del nord Europa, degli Stati Uniti, di altri continenti, che si rifanno sempre più agli aeroporti; ma, visto che le nostre stazioni nascono più di 150 anni fa all’interno delle città e dei centri storici, e che sono tutt’oggi delle porte di accesso alla bellezza italiana, credo che non sia semplicemente una sequenza di luoghi presidiati a fare la qualità dei nostri ambienti. I servizi si possono sicuramente garantire, ma sarebbe bene anche custodire la dimensione sociale. Adesso se uno non vuole consumare un gelato o altro, spesso e volentieri si ritrova “impalato” in mezzo a questa situazione. Non dimentichiamo che queste stazioni sono state dei grandi esercizi architettonici, tutt’ora meta di studio da diverse parti del mondo.
Questo è ancora più vero per le piccole stazioni, quelle perse nelle campagne, nelle piccole città o tra una città e l’altra. Lì c’è il problema dell’azzeramento del personale di servizio per il naturale processo tecnologico: non ci sono più il capostazione, il locale movimentazione treni, la biglietteria. C’è un’altra soluzione proposta e anche già avviata: affidare questi locali al territorio. Ci può parlare di questi progetti?
Lo stile ferroviario ha restituito la dimensione italiana dalle Dolomiti alla Sicilia. Quindi con queste case cantoniere, con queste fermate, con queste situazioni, abbiamo avuto effettivamente la possibilità di comprendere che eravamo in Italia. Questi luoghi sono stati affidati ai cosiddetti cantonieri, ai capi stazione. Poi, per motivi di efficienza e di bilanci, il lavoro è stato molto automatizzato. Oggi ci ritroviamo con questi patrimoni immobiliari straordinari ma non presenziati e, ahimè, spesso vandalizzati. Allora, anche su sollecitazione di un mondo associativo che spesso fa capo alla piattaforma AMODO (Alleanza Mobilità Dolce), RFI ha pensato da tempo di utilizzare questo patrimonio per restituire la dimensione del viaggio in Italia. Ed effettivamente queste stazioni sono state date in comodato d’uso: sono stati definiti dei protocolli d’intesa per cui [un soggetto] si prende cura del patrimonio immobiliare, e contemporaneamente garantisce quel minimo di servizio che le nostre piccole comunità spesso non sono in grado di assicurare. [Ade esempio] un inserviente che dia le informazioni. Quindi si è trovata la formula attraverso il mondo del volontariato, attraverso le cooperative di comunità, attraverso appunto il viaggio in Italia; perché le ferrovie sicuramente sono oggi il maggior player del piano strategico del turismo italiano. Quindi questi nodi dovrebbero raccontare la storia del Bel Paese. Perciò non possiamo permetterci di avere, da una parte, grandi stazioni, moderne, efficienti, pulite, con servizi; e dall’altra quelle abbandonate. Anche in nome di una parità sociale, bisognerà rendersi conto che buona parte del nostro paese è fatto di questi crinali, di questi appennini, di queste realtà più marginali che, ahimè, vivono una grande e profonda crisi demografica. Ma il sistema infrastrutturale ferroviario, con le stazioni e le fermate, in realtà sono il vero e proprio presidio del mancato isolamento. Effettivamente se un centro faceva parte una rete ferroviaria, non era poi così isolato: si poteva raggiungere quella stazione principale e da lì ripartire per chissà dove. Quindi oggi, ripartendo dal patrimonio immobiliare di questi manufatti, potremmo pensare a una rigenerazione territoriale e sociale per cui la stessa comunità, gli stessi territori, ne diventano custodi in accordo con chi possiede la proprietà (RFI, nda.). Si può pensare anche a far tornare a viaggiare dei treni su queste linee ferroviarie che, spesso, sono state sospese per mancanza di manutenzione: dismesse semplicemente perché quella frana, quella manutenzione, non è stata curata; e alla fine ci si è accontentati di un pullman sostitutivo. La linea ferroviaria era una grande battaglia di civiltà: le nostre comunità, più di cento anni fa, si sono battute per avere quella stazione, quel treno, anche se per una sola corsa al giorno, era il simbolo di un collegamento con il resto del mondo. Oggi abbiamo internet; pensiamo di essere commessi con il resto del mondo; ma abbiamo bisogno anche di queste infrastrutture concrete, materiali, a volte anche simboliche, che ci consentono di sentirci parte effettivamente del processo generale di sviluppo. Quindi è anche un simbolo dell’unità del paese.