Una onlus fondata da pediatri-surfisti mette sulle tavole i bambini con “bisogni speciali” sul litorale laziale e, in Sierra Leone, i ragazzi di Bureh Town per dare loro un’opportunità di lavoro.
Diversa spiaggia e diverso mare, ma dal Mediterraneo alle sponde africane dell’Atlantico, stesse scene di bambini e ragazzi che si divertono sulle tavole da surf. Sul litorale laziale sono i bambini con “bisogni speciali” seguiti dai pediatri del Policlinico Gemelli di Roma: ragazzi con condizioni di disabilità motorie o particolari condizioni cognitivo-comportamentali che in riva al mare ricevono un’assistenza che nessuna struttura medica può assicurare. I loro pediatri infatti sono appassionati di surf, ed hanno fondato una onlus che offre gratuitamente ai ragazzi e alle loro famiglie giornate di sole, mare (mosso) e lezioni di surf che fanno parte tanto della terapia “fisica” quanto della “riabilitazione” sociale.
A circa 8000 chilometri di distanza in linea d’aria, sulla spiaggia di Bureh Town in Sierra Leone, gli stessi medici e volontari di Surf4Children hanno portato tavole e attrezzature per istruire al surf i ragazzi del villaggio. La zona e il mare si prestano all’attività, e l’idea è che molti di questi sportivi in erba un giorno potranno vivere di turismo, come istruttori, animatori e lavoratori del surf club che è già sorto. Il progetto Surf4Africa non è solo questo: i dottori italiani hanno lavorato dal 2016 per creare in loco un centro medico di base, in un paese dove le strutture pubbliche sono poche, lontane e offrono assistenza medica molto limitata.
Per conoscere la storia e il presente di questo progetto che unisce sport, natura, solidarietà e sviluppo sociale, abbiamo intervistato Danilo Buonsenso, pediatra del Policlinico Gemelli, tra i fondatori di Surf4Children Onlus.
Versione integrale dell’intervista trasmessa da Radio Vaticana Italia nel programma “Il Mondo alla Radio” del 25 marzo 2021.
Come è nata l’idea di effettuare dei percorsi di assistenza psicomotoria abbinandola al surf?
Siamo un gruppo di medici. Io in particolare mi occupo di malattie infettive. Sin quando ho iniziato a studiare medicina ho avuto sempre l’idea di poter implementare dei progetti a sostegno di comunità fragili nei paesi poveri e in via di sviluppo. Nel corso degli studi, man mano che ho fatto la mia esperienza medica, mi sono reso conto che al di là dell’aspetto prettamente medico, le popolazioni e le società più fragili, dal piccolo villaggio a società più estese, hanno bisogno di altro, oltre all’accesso alle cure, per determinare il loro stato di salute e benessere. Ho sempre ritenuto lo sport uno strumento potenzialmente molto importante, non solo per gli ovvi effetti benefici sulla salute della persona e della collettività, ma anche per l’opportunità di integrazione, inclusione e guida che offre; fino alla possibilità di poter offrire veri e propri posti di lavoro, partendo da investimenti moderati, a popolazioni che beneficerebbero di quei progetti. In particolare siamo medici appassionati di surf e, già durante le nostre esperienze di surfisti, ci siamo resi conto che in Europa, come in altri paesi, ad esempio in Indonesia, questo sport aveva portato allo sviluppo di veri e propri club che, utilizzando risorse gratuite locali, come appunto il mare e l’oceano, davano la possibilità a persone del posto di creare lavoro e turismo.
A quali bambini e ragazzi si rivolge Surf4Childen in Italia? A quali bisogni speciali?
Il nostro progetto si rivolge a bambini con qualunque bisogno speciale: bambini con problematiche di tipo prettamente motorie e fisiche, per esempio con amputazioni dovute a qualunque motivo medico o sociale, o bambini con spina bifida che hanno perso l’utilizzo degli arti inferiori; fino a bambini con bisogni speciali dal punto di vista neuro-cognitivo, quindi con autismo o con sindromi che vanno a impattare sull’aspetto neuro cognitivo e relazionale. Il surf consente ai bambini di svolgere attività in gruppo; infatti noi lo facciamo con gruppi di 20/25 bambini ogni volta e ciò permette la socializzazione, l’inclusione in un gruppo. Al tempo stesso l’atto fisico in sé si fa singolarmente, e quindi consente a bambini con qualunque grado di difficoltà motoria o cognitiva di svolgere l’attività. Soprattutto si fa in un ambiente storicamente amato dai bambini e dalle famiglie, il mare, che è relativamente non traumatico: nel senso che il bambino che cade dalla tavola da surf cade in acqua, comunque sempre accompagnato durante l’attività sportiva da volontari. Al tempo stesso l’intero nucleo familiare ha la possibilità di passare una giornata in compagnia con altri genitori e volontari in spiaggia, mentre il bambino o la bambina con bisogni speciali fa attività sportiva mirata con noi.
Per quali fasce d’età è previsto questo servizio?
Non ci sono limiti particolari. In generale cominciamo dai sei o sette anni, perché è capitato che bambini che hanno iniziato un po’ prima avessero un po’ paura del mare; anche perché ovviamente noi facciamo attività quando il mare è un po’ mosso per consentire il surf, Per quanto riguarda l’estremo superiore non abbiamo limiti particolari: sono benvenuti ragazzi di ogni età. Attualmente il più grande è un ragazzo con la sindrome di Down che ha 28 anni. Il “cuore” del progetto sono soprattutto adolescenti: i ragazzi che finora hanno partecipato con maggiore entusiasmo.
Dove si svolge l’attività in estate? E in inverno?
In estate, da maggio fino a settembre inoltrato, l’attività si svolge sul litorale laziale: le sedi più frequentate dal nostro progetto sono tra Fregene e Santa Marinella. In inverno attiviamo dei progetti ad hoc. Abbiamo fatto per alcuni anni attività sportive in piscina con le tavole da surf; in altri anni abbiamo implementato progetti più prettamente culturali o sociali, come corsi di musica, di teatro; o anche attività senza temi particolari tramite incontri mensili con i ragazzi e le ragazze della Onlus e i volontari. Ovviamente quest’inverno, a causa del Covid, la parte invernale è stata sospesa.
Che benefici traggono i ragazzi da queste attività?
Al di là dell’aspetto prettamente motorio – perché il surf consente di fare attività aerobica e di stimolare la coordinazione – in realtà uno dei benefici principali è la possibilità di stare in gruppo. Stare in gruppo con persone con o senza bisogni speciali, dove ogni bambino è alla pari con gli altri, e quindi si crea un incredibile ambiente di inclusività al 100%. L’altro aspetto particolarmente importante, spesso dimenticato quando si parla di disabilità, è la parte del divertimento nel vero senso della parola. Il motto della nostra Onlus è “Right to Fun” diritto al divertimento. Soprattutto quando i ragazzi con bisogni speciali diventano adolescenti o giovani adulti, entrano in un limbo in cui sono dimenticati dalle istituzioni: per motivi amministrativi e burocratici i supporti alle famiglie vengono a calare, perché vengono ritenuti adulti anche se non sono autonomi come gli adulti che non hanno questi bisogni speciali. Invece un progetto di questo tipo consente di fare uno sport adrenalinico e divertente, che fino a pochi anni fa nessuno avrebbe associato alla disabilità, al mondo dei bambini e ragazzi con bisogni speciali, perché veniva associato all’ideale del surfista biondo con il fisico perfetto. Noi invece abbiamo visto che questo cliché non è vero: è accessibile a tutti e l’adrenalina che c’è in questo sport ha dato la possibilità a questi ragazzi di potersi esprimere liberamente, nel profondo del loro modo di essere, piuttosto che dover seguire lo schema di un’attività prefissata per sviluppare o migliorare un aspetto clinico.
Un altro mare, altri bambini, altri ragazzi e altre finalità ma sempre il surf nel vostro progetto Surf4Africa in Sierra Leone. Che cosa fate là?
In Sierra Leone abbiamo attivato questo tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, quando l’Africa occidentale era colpita ancora interamente dall’Ebola. Stava per uscirne: gli ultimi casi sono stati notificati a gennaio 2016. In quel periodo la Sierra Leone ovviamente ha subito un forte impatto medico-sanitario ma anche economico: perché ovviamente sono stati chiusi i confini e le attività di turismo in quelle regioni hanno avuto un forte impatto. Approfittando del fatto che nel villaggio di Bureh Town, che affaccia proprio sul mare, c’erano già dei ragazzi che facevano surf, abbiamo ritenuto che lo sport potesse essere uno strumento che, con un finanziamento relativamente basso, potesse offrire ai ragazzi del posto l’opportunità di sviluppare una attività di inclusione sociale per i ragazzi e le ragazze dopo la scuola; ma anche una vera e propria attività lavorativa. Tant’è vero che, negli anni, si è sviluppato un vero e proprio surf club che oggi offre ai turisti e alle persone che un motivo o per un altro si trovano sul posto, di noleggiare attrezzatura, di avere un istruttore che insegna le attività sportiva, oltre a un piccolo ristorante e dei bungalow per attività di vitto e alloggio: un vero e proprio bed and breakfast.
La vostra associazione non si limita a questo in quell’angolo di mondo. ma ha anche un progetto riguardante la salute delle persone che abitano lì.
Noi siamo medici, e ovviamente quando ci siamo ritrovati in quella realtà non abbiamo potuto fare a meno di notare che la Sierra Leone è uno dei paesi più poveri al mondo: è fra i primi tre paesi con la più alta mortalità nei primi cinque anni. È un paese in cui l’assistenza sanitaria gratuita è pressoché inesistente: limitata solo ad alcune prestazioni alle donne in stato di gravidanza, e alle vaccinazioni per i bambini nei primi cinque anni di età. Per tutto il resto c’è bisogno innanzitutto di avere risorse economiche per spostarsi in quei villaggi che hanno a disposizione un centro di salute, cosa che non è affatto frequente, oppure risorse economiche per una visita medica o per i farmaci necessari per curare ad esempio la malaria o la polmonite. Noi, da medici, ci siamo ritrovati in questo paradiso terrestre che però non aveva a disposizione un centro di salute, e negli anni abbiamo messo su per prima un’attività di primissimo livello. Inizialmente era gestita dai medici volontari della Onlus, che andavano periodicamente in Africa, sempre però accompagnati da personale locale: i cosiddetti Community Health Workers. Sono le persone locali più istruite che vengono formate dai governi per offrire l’assistenza di primissimo livello. Per rendere il progetto sostenibile abbiamo puntato sulla formazione del personale locale: non solo tramite la formazione con noi, ma inserendolo nelle scuole statali della Sierra Leone; in modo da offrire loro l’opportunità di avere una certificazione legale, un riconoscimento nazionale a tutti gli effetti delle loro figure di operatori sanitari. Questa cosa ha una sostenibilità maggiore nel lungo termine e fa “girare l’economia” delle attività locali.
Come si può contribuire dall’Italia al progetto sportivo-lavorativo e a quello sanitario?
È possibile contribuire in diversi modi. Per chi si trova nelle zone dove svolgiamo le attività in Italia: le risorse umane, i volontari che vogliano supportare il progetto e i bambini sono sempre benvenuti durante le attività. Possono contattarci via email, e sui social disponibili sul sito www.surf4children.it. Sullo stesso sito sono disponibili account bancari e Paypal per sostenere economicamente i nostri progetti in Italia e in Sierra Leone.
So che in Sierra Leone questi fondi sono usati per cose molto concrete: per esempio i filtri dell’acqua.
In Sierra Leone, nel villaggio dove andiamo noi, non esiste l’acqua corrente. La fonte d’acqua è un ruscello dove le persone riempiono il classico secchio che poi è anche l’acqua che usano per bere, per l’idratazione. Quindi abbiamo iniziato finanziando i filtri per l’acqua ma poi abbiamo esteso i progetti all’acquisto di farmaci, al pagamento del salario del personale sanitario, allo sviluppo del Centro di Salute: una sua implementazione, nonché all’implementazione del surf club.
Quali sono le differenze e le analogie di queste due esperienze sul litorale romano e su quello africano per voi medici e per i volontari che vi aiutano?
Le parole in comune tra due i due progetti sono “bisogni speciali”. In Italia significa bisogni speciali dal punto di vista prettamente fisico, motorio, cognitivo-comportamentale; quindi nel senso più strettamente medico del termine. In Sierra Leone significa bisogni speciali dal punto di vista di fragilità sociale ed economica.
Che cosa accomuna i bambini africani e i bambini europei, italiani, in queste due esperienze sulle tavole da surf?
L’entusiasmo, l’energia positiva, l’adrenalina, la purezza dei bambini è unica e tale in tutto il mondo. Purtroppo poi le difficoltà della vita vanno spesso ad intaccare la purezza dell’animo dei bambini; e purtroppo nei paesi più fragili cioè avviene prima, perché ci si trova di fronte a delle realtà contro le quali i bambini devono imparare a sopravvivere da subito.