Innovazione Interviste

Transizione digitale per il futuro delle imprese italiane

La digitalizzazione ormai è imprescindibile per la vita d’impresa. L’Italia, nonostante i passi avanti fatti, è ancora in fase di adattamento. Intervista a Paul Renda, CEO di Miller Group.

La digitalizzazione sta andando molto veloce ormai, ma l’Italia per vari motivi si sta muovendo a due velocità: una parte più matura e un’altra invece che fatica a progredire nel percorso di digitalizzazione. Il risultato è una realtà dove la bilancia della competitività pende a favore di quelle aziende, per lo più competitor provenienti dall’estero, che possiedono competenze importanti nel mondo digitale e le sanno sfruttare a proprio vantaggio. Il nostro Paese sconta ritardi strutturali, a partire dall’instabilità normativa che non permettono di velocizzare il processo con il rischio di perdere le migliori menti e di conseguenza posizioni nello scenario competitivo dei prossimi anni, come ha spiegato il CEO di Miller Group, Paul Renda intervenendo al Festival Impatta Disrupt. Ecco il video del suo intervento.

Renda, di che cosa si occupa Miller Group?

In Miller Group di occupiamo di digitalizzazione ed efficientamento di processi da quasi vent’anni, soprattutto di aziende private, anche a livello internazionale. Al momento ne stiamo seguendo più di 2000. Quello della digitalizzazione è un mondo talmente ampio e complesso che sta mettendo a dura prova il top management aziendale. Nella Pubblica Amministrazione, con la quale ci stiamo confrontando molto negli ultimi anni, vediamo importanti similitudini con il mondo privato, soprattutto dal punto di vista della cultura, delle competenze e delle infrastrutture, elementi base per affrontare un processo di transizione digitale. Bisogna appropriarsi della tecnologia attraverso percorsi logici che è importante mettere nella giusta direzione per evitare di creare modelli non ottimali. Oggi ad esempio si dibatte molto di intelligenza artificiale, ma alla sua base ci sono altri elementi come i dati, la loro protezione, il machine learning, la blockchain.

In vent’anni il mondo della digitalizzazione è cambiato molto. Che tipo di crescita vi aspettavate al tempo? La disponibilità tecnologica e le sue linee guida sono andate in quella direzione?

In vent’anni sono successe tante cose. Quando sono tornato dagli Stati Uniti e parlavamo alle imprese di transizione digitale, venivamo visti come alieni. Nel corso degli anni in Italia si è sviluppata molta sensibilità e minor scetticismo nei confronti della tecnologia, soprattutto negli ultimi tre anni. Oggi possiamo dire che il concetto di dover digitalizzare l’azienda è sdoganato a livello culturale, ma ci sono ancora molti freni. Ad esempio l’ambizione nello sviluppo di progetti e processi che hanno a che fare con il miglioramento delle performance e dei risultati. In Italia siamo abituati culturalmente a sviluppare dei processi di tipo lineare, con periodi di incubazione molto lunghi rispetto alle necessità e alle opportunità che oggi offre il mondo della tecnologia. A livello internazionale invece spesso vengono fatti dei percorsi con dei balzi tecnologici alla base dei quali si trova l’ambizione di arrivare per primi a determinati risultati. Ciò permette di velocizzare i percorsi e spesso conquistare sistemi di oligopolio e monopolio all’interno di determinate tecnologie e infrastrutture. In Italia mancano questo tipo di visione e sensibilità e il risultato è che si rimane indietro su determinati driver tecnologici.

Sulla digitalizzazione di imprese, aziende e amministrazioni, lo scalino principale da superare è quello delle competenze?

In Italia il digital divide è rappresentato da tanti elementi. Primo fra tutti la carenza di competenze, un fattore che notiamo in tantissime realtà aziendali. Anche noi facciamo molta fatica a trovare personale qualificato da inserire in squadra. L’altro fattore è di tipo infrastrutturale: parlo della connettività. Noi stessi sono ormai due anni che aspettiamo la fibra nella nostra nuova sede, e per un’azienda come la nostra, altamente tecnologica, può essere un problema sia di costi che di lentezza operativa. Di conseguenza tutta la filiera fatica a svilupparsi. In alcune zone d’Italia si sono sviluppati a macchia di leopardo ecosistemi interessanti, composti da pubblico, privato e università: penso a realtà come Milano e Torino o anche alla zona di Napoli con l’Università Federico II e altri soggetti che negli ultimi anni hanno dato vita ad un ecosistema tecnologico convincente. Imparare a fare squadra su tecnologia e innovazione è uno degli elementi essenziali che deve entrare il prima possibile nel DNA italiano. La dimensione su cui oggi agiamo non ci permette di competere con gli operatori internazionali.

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