Sacrificio, trionfo, rinascita e condivisione. Dall’oro olimpico all’insegnamento in parchi e scuole. La storia di un campione olimpico venuto dal Burundi dimostra con l’esempio come anche lontano dalla ribalta i valori dello sport contribuiscono alla crescita della comunità.
Il 3 agosto del 1996 una bella storia di amicizia e generosità portò una nota lieta in un’edizione dei giochi olimpici funestata da un attentato dinamitardo che, pochi giorni prima, causò due vittime parco olimpico di Atlanta. Il miracolo sportivo avvenne quando Vénuste Niyongabo, mezzofondista del Burundi, tagliò per primo il traguardo della finale dei 5000 metri. Per correre quella gara Niyongabo aveva lasciato al suo allenatore il posto che gli spettava nella gara dei 1500, dov’era tra i favoriti e veniva da un bronzo mondiale. Il suo allenatore non aveva mai avuto la possibilità di correre un’olimpiade e quella sarebbe stata l’ultima chance di farlo. Niyongabo partecipò dunque ai 5000, e i vinse guadagnando la prima, e finora unica, medaglia d’oro olimpica del suo paese
Un paese turbato da anni di sconvolgimenti politici e nel pieno di una guerra civile, che Vénuste aveva lasciato da qualche anno per trasferirsi in Italia ad allenarsi come atleta professionista. La sua storia era iniziata 23 anni prima a Vugizo, un villaggio tra le colline e i boschi di questo rigoglioso paese al centro dell’Africa. Figlio di un veterinario e di un’insegnante, come tanti bambini di ogni epoca e ogni latitudine, aveva inconsapevolmente iniziato la pratica sportiva percorrendo strade sterrate per chilometri per andare ogni giorno da casa a scuola, carico di libri e, come racconta lui, un po’ camminando un po’ correndo per non fare tardi. La scuola in Burundi, allora come oggi, è la prima palestra per gli sportivi del paese. I ragazzi sono incoraggiati a praticare e possibilmente ad eccellere nello sport, che non è visto come un ostacolo allo
studio delle altre materie ma piuttosto come una di esse. Calcio e basket non esaltavano i talenti il tredicenne Niyongabo, ma quando arrivò il tempo delle gare d’atletica il ragazzo primeggiò sulle piste sterrate del paese, correndo a piedi nudi o condividendo le scarpe con i compagni di squadra. A 17 anni arrivò la convocazione nella nazionale di atletica per i Campionati Africani del ’90. Al Cairo calcò la sua prima vera pista, al fianco di nomi leggendari come Skah e Kiptanui; preludio alla medaglia dei mondiali juniores di due anni dopo: Vénuste a 19 anni colse l’argento sui 1500 metri e sfiorò il podio sugli ‘800. Un mondiale d’atletica non passa inosservato: iniziarono ad arrivare proposte dai college statunitensi e da un manager italiano che cercava giovani talenti dell’atletica da portare in Toscana. Sulla carta una scelta facile, ma nella pratica di un ragazzo che fino ad allora dopo gli allenamenti tornava a Vugizo dai genitori e dai sei fratelli entrano in gioca altri fattori: “A scegliere per me fu la burocrazia – racconta oggi Niyangabo – da un lato e la mia volontà di diventare un campione dall’altro. Le pratiche per emigrare negli Stati Uniti avrebbero richiesto mesi e mesi, l’Italia mi richiedeva un visto sul passaporto. La decisione fu facile: Siena sarebbe stata la mia nuova casa.”
Il ragazzo che arrivò in inverno, senza denaro, senza vestiti pesanti e senza parlare una parola d’italiano, si allenò duramente. L’atletica non è il calcio: ogni giorno Vénuste faceva un’ora d’autobus per andare al campo di allenamento. Il frutto del sacrificio non venne colto alla prima occasione: i Mondiali del ’93 in Germania, quelli dei “grandi” lo videro fermarsi alla semifinale. “Mancava l’esperienza” sentenzia lui. Ma due anni dopo, al Mondiale in Svezia, testa e gambe sono al meglio: medaglia di bronzo sui 1500, dietro a Morceli e El Gerrouj, due mezzofondisti che insieme hanno portato al Marocco dieci medaglie d’oro, tra mondiali e olimpiadi. “Mentre ero sul podio guardavo salire la bandiera del mio paese, ero emozionatissimo, felice, ma non ero del tutto soddisfatto – racconta ancora Niyongabo – Come si dice “l’appetito vien mangiando” e l’anno successivo ci sarebbero state le Olimpiadi di Atlanta. Volevo vedere quella bandiera ancora più in alto.”
E così fu. Il 3 agosto 1996, nell’olimpiade del centenario che Atlanta aveva “soffiato” ad Atene, un ragazzo di 23 anni di una nazione che non era mai salita su un podio olimpico, sorprese tutti gli esperti: rinunciò alla gara per cui era tra i favoriti, i 1500, e puntò tutto sui 5000 metri. Dodici giri di pista dopo era in vista del traguardo: “A 200 metri dall’arrivo mi resi conto che non mi avrebbero più raggiunto – ricorda Vénuste – Subito dopo aver tagliato il traguardo però mi sembrò di aver vinto una gara come un’altra, come quando ero ragazzino. Fu solo quando uscii dalla pista, quando salii sul podio per la premiazione che mi resi conto di quanto fosse importante quella vittoria.”
Medaglia d’oro. Campione olimpico. Qualcosa che rimane per sempre e cambia tutto, non solo per lui ma anche per la famiglia, per Vugizo, per il Burundi. Se un medagliato ai mondiali viene contattato da club sportivi, manager, e università, un campione olimpico africano inizia a ricevere telefonate e proposte da realtà come i governi, l’Unesco, la FAO. C’è da dare l’esempio a una generazione di giovani africani; ma anche da sensibilizzare il mondo su temi come il diritto all’educazione, lo sviluppo sociale, la lotta alla fame. La carriera di Niyongabo non gli riserva altri trionfi paragonabili, se si guarda solo il palmarès. Infortuni, momenti difficili, occasioni che sfuggono… sono eventualità che possono capitare al più forte degli atleti. Alcuni ne escono distrutti, nel fisico e nel morale. Altri apprendono la lezione, dello sport come della vita: “Capii che il tempo di sognare vittorie era finito e che avrei dovuto inventarmi una nuova vita, diventare un uomo nuovo lontano dalle piste. Quando sei un atleta in fondo al cuore sai che non lo sarai per sempre. Bene, dovevo cambiare tattica, far diventare quell’imprevisto una risorsa da sfruttare a mio vantaggio, inventarmi una nuova vita.”
Se c’è un modo degno di mettere a frutto una carriera sportiva di massimo livello, questo è rappresentato dalla seconda vita di Niyongabo che si svolge in gran parte in Italia, dove si è creato una famiglia, e in giro per il mondo, grazie al lavoro nel marketing e nella comunicazione per Nike. Questa dimensione globale lo porta a contatto con i grandi atleti, a respirare ancora l’aria dei villaggi olimpici, per portarci l’esperienza e la visione d’insieme dell’ex atleta. Ma l’esempio più edificante di che cosa può restituire alla società un campione dello sport, una volta spenti flash e telecamere su podi e coppe, Vénuste lo ha dato lavorando per la promozione dello sport di base: “Fra le altre cose lo sport mi ha insegnato a essere grato per quello che ho avuto.
Ora cerco di restituire un po’ di quella fortuna che ho ricevuto” ha detto riferendosi a “Peace and Sports”. È un’organizzazione internazionale di ex-atleti che avvia progetti di assistenza e sviluppo per i giovani in tutto il mondo. Nel nostro paese, che ora è anche il suo, ha fondato invece “Run Like Us” una società sportiva che opera a Bologna, e mira ad aggregare persone comuni, lavoratori, famiglie, ragazzi, per praticare sport di base nelle scuole, nei parchi e anche online, con la guida di istruttori qualificati. L’associazione segue la filosofia del fondatore: “Aggregazione e attenzione alla salute. Abbiamo pensato questo progetto perché fosse il più possibile adatto a tutti, dagli sportivi abituali a chi fa una vita sedentaria, dai bambini agli anziani, senza dimenticare il mondo della disabilità.”
La lunga intervista che qui pubblichiamo ci ha dato l’opportunità di conoscere una storia di sport, uno spaccato di un paese lontano, anche dal punto di vista ambientale che è tanto importante per noi; ma soprattutto ci ha permesso di conoscere un uomo il cui percorso è di esempio non solo per chi vuole eccellere, ma anche per chiunque voglia utilizzare il talento e le idee al servizio della comunità.