Bene il progetto di rinaturazione del Po, male la mancata riforma della finanza verde. WWF, Legambiente, Greenpeace e Kyoto Club non promuovono il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato all’Europa dal Governo.
Intervista ad Alessandra Prampolini, DG del WWF Italia, che giudica il Piano una “mancanza di visione e coraggio”. Tra le critiche principali anche la poca “chiarezza e trasparenza” nei progetti per la decarbonizzazione del paese; la precedenza data all’idrogeno rispetto alle fonti rinnovabili, le scarse risorse assegnate all’elettrificazione dei trasporti privati; i fondi indirizzati all’alta velocità ferroviaria piuttosto che alle ferrovie regionali e locali; la scarsa attenzione alla filiera della produzione di imballaggi e prodotti con materiali riciclabili nell’ottica dello sviluppo di una economia realmente circolare.
Per aiutare degli stati membri a riprendersi dalla crisi sociale ed economica scatenata dal Covid19, l’Unione Europea ha lanciato un vasto programma di finanziamenti chiamato Next Generation EU: fondi distribuiti ai governi nazionali in misura proporzionale alla popolazione e all’impatto della crisi nei singoli paesi. L’Italia è uno dei maggiori beneficiari e, per intercettare i 191 miliardi di euro messi a disposizione dall’UE, il Presidente del Consiglio ha dovuto presentare un programma che descrive come il nostro paese impiegherà questo denaro da qui al 2026. Il documento presentato da Draghi a inizio maggio è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. È diviso in sei “missioni” individuate dal Governo: digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. Senza contare la salute, ci sono almeno due di queste missioni (rivoluzione verde e mobilità sostenibile) che lasciano intuire che l’attenzione all’ambiente abbia grande rilievo per le politiche finanziarie del prossimo futuro. Ma non tutti la vedono così.
Dopo la pubblicazione del PNRR diverse associazioni e voci autorevoli dell’ambientalismo italiano non hanno risparmiato critiche al modo in cui il Governo immagina di dare il via alla transizione ecologica. WWF Italia, Legambiente, Kyoto Club, Greenpeace e Transport & Environment, hanno diramato un comunicato congiunto in cui riassumono luci e ombre del Piano che definiscono “poco significativo per il clima” e che, secondo loro, rischia di sprecare un’occasione imperdibile. Il documento affronta le presunte mancanze o insufficienze del Piano in diversi settori economici, industriali e ambientali. Ad esempio, scrivono le associazioni, si punta poco sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica, destinatarie di fondi definiti “contentini”; si definisce “incerto” lo sviluppo di strutture di accumulo di energia che, come sappiamo, saranno decisive per un futuro affidato in prevalenza alle fonti rinnovabili. Per i trasporti si ritiene “completamente mancante” dal Piano, lo sviluppo della mobilità elettrica. Per l’economia circolare si critica il Governo di aver indirizzato le risorse soltanto al trattamento dei rifiuti, senza incentivare le fasi fondamentali del riutilizzo degli scarti come nuove materie prime, e la ricerca sui materiali per involucri e confezioni dei prodotti allo scopo di ridurre i rifiuti all’origine. Non ultimo il comparto agricolo: definito il “grande assente” del PNRR, con gli allevamenti intensivi che sono individuati come uno dei grandi ostacoli alla transizione ecologica.
Per approfondire questi ed alti punti critici della questione abbiamo intervistato Alessandra Prampolini, Direttore Generale di WWF Italia, intervenuta nella rubrica settimanale di Earth Day Italia all’interno del programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia. Di seguito l’intervista integrale.
Avete scritto nel comunicato stampa di commento al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che è “un’occasione imperdibile che però rischiamo di sprecare”. Che cosa manca a questo piano, in parte o del tutto, secondo voi?
Dal nostro punto di vista il piano manca ancora di visione e di coraggio: le cose che avevamo chiesto nei mesi scorsi. Manca di visione e coraggio perché non riesce a centrare gli obiettivi che porterebbero a rilanciare veramente il nostro paese, sulla base di una visione di economia ed ecologia. In particolare mancano chiarezza e trasparenza rispetto alle scelte che riguardano il processo di decarbonizzazione, la tutela del capitale naturale e la conversione ecologica dell’economia. In particolare rispetto ai progetti in essere, non è chiaro quali siano i criteri di classificazione, e quindi quale sarà materialmente il principio su cui questi progetti verranno implementati. In secondo luogo, per quanto riguarda la tutela del capitale naturale, ricordiamo che c’è un regolamento derivante direttamente dal Next Generation Fund dell’UE, che prevede il collegamento alla Strategia sulla Biodiversità dell’Unione Europea per raggiungere entro il 2030 almeno il 30% delle aree terrestri e marine protette. All’interno del Piano non vediamo quali sono le azioni e gli strumenti che si vogliono mettere in campo per raggiungere questo obiettivo, che secondo me è fondamentale per la ripresa del paese.
Un punto critico che sottolineate è la mancata riforma della fiscalità. Come la immaginate? In quali ambiti specifici?
La riforma della fiscalità per noi dovrebbe assicurare l’eliminazione dei sussidi alle fonti fossili, ambientalmente dannosi. Contestualmente dovrebbe identificare nei principi di fiscalità ambientale dei pilastri per una riforma fiscale. Essendoci una mancanza in questo senso, ci sembra che la finanza verde non sarà, al momento, la leva per la ripresa del paese; mentre questo sarebbe fondamentale. La finanza verde si può innescare soltanto se si attua innanzitutto un principio di trasparenza e rendicontazione rispetto ai sussidi, e in secondo luogo un’esclusione al finanziamento delle infrastrutture per tutte le fonti fossili. Come WWF abbiamo avanzato delle proposte. In particolare allocare delle risorse aggiuntive: un miliardo di euro per creare un meccanismo attraverso dei crediti d’imposta che favorisca contratti di lungo periodo tra i produttori e i grandi consumatori. Questo sarebbe un passaggio importantissimo, a cui andrebbero affiancati ulteriori finanziamenti, che secondo noi possono essere stimati fino a 3 miliardi di euro, per integrare la voce delle rinnovabili e delle batterie.
Siete critici anche sulla preferenza data dal Piano all’idrogeno rispetto ad altre rinnovabili. Perché l’idrogeno non è una buona alternativa alle fonti fossili?
Perché purtroppo l’unico che si possa inserire in un percorso di sviluppo giusto e verde è per l’appunto l’idrogeno “verde”. In alternativa l’uso dell’idrogeno prolungherebbe l’uso delle infrastrutture dei gas, rispetto alle quali noi siamo chiaramente contrari, e quindi consentirebbe di continuare a investire nei combustibili fossili per i prossimi decenni. Al momento l’idrogeno verde (che viene prodotto tramite energie rinnovabili) è solo il 4% a livello mondiale. Questo avviene per tre ragioni. Innanzitutto ancora non c’è abbastanza energia rinnovabile per produrlo; quindi il punto di partenza deve essere assolutamente l’investimento nelle rinnovabili. In secondo luogo il processo di produzione è molto energivoro, e oggi non disponiamo non disponiamo ancora di una tecnologia che renda veramente possibile attuarlo su scala industriale. In terzo luogo, anche in ragione dell’evoluzione tecnologica, l’idrogeno verde ha ancora un costo non competitivo rispetto a quelli grigio (prodotto da processi industriali) e blu (da gas). Di conseguenza riteniamo che puntare sull’idrogeno in questo momento sia una strategia abbastanza inspiegabile; e soprattutto che non garantisca gli obiettivi di decarbonizzazione del paese.
Uno degli obiettivi nazionali è arrivare a sei milioni di auto elettriche entro il 2030. Il PNRR va incontro a questo obiettivo?
Questo purtroppo è uno dei punti del PNRR che ci lascia più preoccupati e anche sorpresi, perché non ravvisiamo tra le misure presentate al momento un vero obiettivo di incentivazione e di decollo della mobilità elettrica. Soltanto l’1% del fondo, ad oggi, è dedicato allo sviluppo di questo filone. A titolo di esempio la Germania dedica il 25% delle risorse e la Spagna il 10%. Di conseguenza non vediamo la volontà di rinnovare veramente il settore dell’automotive, e quindi ci chiediamo in quale direzione si voglia andare per un aspetto così cruciale della gestione della logistica nel nostro paese.
Per i trasporti ferroviari il piano dà un buono spazio ai progetti dell’alta velocità. Questo filone di investimenti, secondo quanto annunciato, riguarderà la rete ferroviaria verso il Sud, che ora è deficitaria rispetto al resto del paese. Però anche qui ci sono delle critiche da parte vostra.
Le critiche scaturiscono principalmente dal fatto che la misura dell’investimento sull’alta velocità ci sembra sia completamente sproporzionata rispetto al rafforzamento delle infrastrutture: la logistica sui nodi metropolitani e sulle ferrovie regionali del paese, dove comunque gravita la vita reale di milioni di cittadini ogni giorno. Abbiamo 13 miliardi destinati all’alta velocità ferroviaria, più 26 miliardi aggiuntivi per la “super alta velocità” (per la Salerno Reggio Calabria): quindi un totale di 39 miliardi. Invece abbiamo poco più di 9 miliardi per le infrastrutture dei nodi metropolitani e del livello regionale dei trasporti. Questo è uno squilibrio che non ci sembra giustificabile, soprattutto partendo dalle esigenze del territorio.
Dai rapporti che escono ogni anno, un settore in cui l’Italia sembra all’avanguardia è l’economia circolare. Sappiamo di percentuali di raccolta differenziata molto alte rispetto ad altri paesi in diversi settori. In questo campo ci sono dei rilievi da fare al Piano?
Il nostro rilievo riguarda ancora una volta la misura in cui si è deciso di investire su questo settore. Soltanto l’1%, 2,1 miliardi di euro, sono stati allocati per l’economia circolare in questo momento; e sono fondi destinati per lo più alla realizzazione di impianti per la gestione del ciclo dei rifiuti. Dal nostro punto di vista, servirebbe un investimento più sostanzioso: almeno miliardo di euro in più per i depositi cauzionali degli imballaggi. Poi servirebbe una quota consistente, nell’ordine probabilmente dei 50 milioni, dedicata all’infrastruttura nazionale per la simbiosi industriale: una piattaforma che rileva i flussi di materia scartati dai distretti e dal ciclo della produzione; e altrettanto per una piattaforma dedicata ai sottoprodotti e allo scambio delle buone pratiche. Di conseguenza ci sembra che, per quanto riguarda l’economia circolare, sia stato fatto meno della metà di quello che poteva essere fatto.
Sul comunicato avete scritto “rischiamo di rimanere fuori dalla grande trasformazione in atto”. È veramente in atto una trasformazione in senso sostenibile a livello internazionale? Dove? In quali paesi? In quali settori?
Come menzionavo prima punto ci sono alcuni dei nostri vicini più importanti che stanno puntando tantissimo sulla mobilità elettrica. Questa è una tendenza che si sta affermando sempre di più, soprattutto nei paesi che hanno i mezzi per farlo: quindi l’Europa, il Nord America, e alcuni paesi dell’Asia. Stanno sicuramente avvenendo investimenti sulle infrastrutture; in particolare sul rilancio delle città, rispetto a cui si sta andando addirittura oltre il concerto di smart cities: si sta tornando al concetto di città verdi, giuste, sostenibili, circolari. Anche perché l’insostenibilità del nostro sistema economico (e più in generale del sistema di vita) sta cominciando a far sentire i suoi impatti a un livello troppo radicale nella vita delle persone. Di conseguenza a livello globale c’è effettivamente un movimento in quella direzione.
Il vostro documento Comunque non è una bocciatura completa del PNRR. Tanto è vero che parlate di “rischio” di perdere un’occasione. Ad esempio il WWF ha accolto con favore il piano di rinaturazione del Po, citato esplicitamente nel Piano. In che cosa consiste quest’opera?
È un piano che abbiamo accolto con favore anche perché ne siamo stati artefici e promotori insieme ad ANEPLA, l’Associazione Nazionale degli Estrattori e Produttori Lapidei di Confindustria. Fa parte di una nostra visione più ampia per la quale, in generale, il tema della riconnessione del territorio e del recupero di corridoi ecologici è cruciale per un rilancio del nostro capitale naturale e del territorio. Viviamo in un paese con un’elevatissima ricchezza dal territorio e della biodiversità, ma che nel corso degli anni si è trasformato in una sorta di mosaico frammentato; perché l’azione umana si è inserita, interrompendo la continuità del territorio che è garanzia di resilienza e di tutela rispetto al dissesto idrogeologico. Quello del Po è un progetto ambiziosissimo che andrebbe a toccare una fascia fluviale di oltre 32 mila ettari, all’interno della quale sono state individuate 37 aree da rinaturalizzare lungo il tratto medio padano, e 7 aree sul delta del Po. L’obiettivo generale dell’operazione è recuperare il corridoio ecologico che il fiume per sua natura rappresenta, che nel corso degli anni, l’alta densità di attività industriali, è stato progressivamente interrotto, frammentato ed impoverito; e quindi recuperare una fascia naturale e la diversità degli ambienti che essa rappresenta. Nell’ambito di questo progetto viene promossa anche una riforestazione naturale e c’è un tema di contenimento e di eradicazione delle specie vegetali alloctone e invasive. Sono stati presi in considerazione tutti gli aspetti, da quelli produttivi e quelli territoriali, per far sì che nel corso di pochi anni il progetto possa ripristinare la funzione naturale di regolatore e portatore di ricchezza del fiume più importante d’Italia.
Ci sono altri punti del Piano condivisibili o che sono stati ben accolti? Dopo le prime critiche, vostre e di altre associazioni, c’è stata un’apertura del Governo a modificare alcune linee di investimento?
In generale, rispetto alle bozze viste a metà gennaio, abbiamo visto e apprezzato lo sforzo per riportare in equilibrio la quota da destinare alle azioni per il clima e la biodiversità: si è passati dal 31% al 36%, che è ben più vicino a quanto richiesto dall’Unione Europea. Da questo punto di vista, sicuramente la quantità di progetti inserita ci è sembrata più congrua, anche rispetto alla possibilità punto di vedere il nostro Piano Nazionale approvato e accolto a livello europeo: ricordiamo che comunque ci sono un regolamento e dei criteri. Comunque, al di là di questo miglioramento, non ci sembra che ci siano sufficienti elementi di chiarezza rispetto a questi progetti per determinare se effettivamente questo aumento di investimento si tradurrà in quel rilancio verde in cui noi speriamo.